Cinquantatre sfumature di sole. Carlo Conti è tale e quale a se stesso, ha perso i riccioli e la 127 Fiat ma è rimasto innamorato della musica, del juke box, del vinile, degli ellepì, di «quelli che», in breve del popolo che siamo noi e che qualcuno finge di non essere, perché è meglio spacciarsi come intellettuali, soprattutto tra i giornalisti al seguito, piuttosto che cadere nella melassa, dicono loro, del nazionalpopolare. Ma a chi propongono i loro scritti? A chi si rivolgono, in edicola, i fogli che ne pagano vitto e alloggio? Alla metà del paese reale e non certo dei reality, alla metà del paese che, una volta all'anno, almeno, ha bisogno della settimana in bianco, nel senso che può e sa fare a meno del football e dei litigi condominiali tra sedicenti opinionisti e portavoce di politica. Guarda Sanremo, sì lo guarda prima e poi lo ascolta, Carlo Conti è come la schiuma dopo lo shampoo (grande Giorgio, grandissimo Gaber) soffice, morbido, bianco (ehm, l'abbronzatura cambia il colore) lieve. Mi piacerebbe volare sul nido del gufo, al secolo Fazio Fabio e la sua orchestra di autori vari, depositari di un altro festival, filosofico, savianesco, postmoderno, la loro sedicente grande bellezza è un ricordo antico, il festival di Conti sembra andare a braccio e straccia indici di ascolto dati per storici, assoluti, ineguagliabili. Vince la nostalgia ma non quella polverosa, vince e basta. Faccia un passo in avanti chi non abbia in casa un album di fotografie e, da solitario, ogni tanto lo sfogli ripensando a chi e a quando e a come. Che cosa è altro Sanremo da sessantacinque anni, a parte i tentativi di aborto succitati?
Conti sa benissimo, non per astuzia ma per passione, che la musica è memoria, che Vasco ha sessantatre anni, Baglioni anche, Paolo Conte settantotto, come Elton John, Mick Jagger è a settantuno, uno in meno di Macca McCartney ma chi non vorrebbe vederli all'Ariston? Forse alcuni inquilini della sala stampa? Forse il grande pubblico che ama il cinema polacco? Si va in gol con il pallone e non con la filosofia della lavagna, Carlo Conti è un tifoso della viola, nel senso della Fiorentina, dunque è costretto, da sempre, a vivere di speranze e di attese. Piace alla gente che piace e non, attraversa generazioni perché sa chiamarsi fuori dall'evento, lasciando la luce al vero attore, a differenza di alcuni predecessori predicatori. Se commette una gaffe ne sa uscire immediatamente, intuendo che il pubblico non sia affatto tonto come molti ritengono, ha tempi radiofonici e televisivi ma non nevrastenici, ha realizzato il sogno di chi ama la musica e muore dalla voglia di poter dialogare con il proprio vinile, intervistando il cantante, la band, l'artista, come si fa, da bambini con le figurine e le bambole.
Sì, facile, lo paga la Rai con i soldi nostri. Ma lo fa con professionalità e senza pietismi o approfittando del mezzo. In prima fila, ogni sera all'Ariston, davanti a lui, c'è la consueta parata dei migliori paraculi dell'ente, tutti premiati, alla memoria, con un biglietto omaggio e la poltrona rossa privilegiata e relativa inquadratura da contratto. Conti se li gioca con garbo, bastano due secondi di celebrità sanremese per un'eredità annuale.
Già si parla di un Conti bis, come si diceva e si scriveva di un Morandi «eterno», di un Fazio «altissimo-levissimo-purissimo», davvero unico ma non nel numero dei suoi collaboratori dal bel pennino, i magnifici 7.
Per il momento è Conti Carlo, di anni cinquantatre, da Firenze. Al debutto, dopo lunga fila.
E poi basta con questa storia dell'uomo normale, del medioman, robetta da Gialappa's.
Come a dire che trattasi di un pirla o, in antropologia, per i dotti presentatori del passato, di un oligofrenico. La cosa più difficile non è essere dei fenomeni o degli eroi. La cosa più difficile è essere persone normali. Non lo dico io, lo ha scritto Vasco Rossi. Capito?- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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