"Contro i borghi" ridotti a pezzi da museo dalla modaiola retorica dell'"eccellenza"

Storici dell'architettura e urbanisti contestano il bando di Franceschini

"Contro i borghi" ridotti a pezzi da museo dalla modaiola retorica dell'"eccellenza"

Due anni fa, il ministro Franceschini ebbe l'idea di indire un bando destinato ai paesi con un passato glorioso, ma in difficoltà. Condizione per partecipare era mutare categoria merceologica: da paesi dovevano trasformarsi in borghi. In cima al palo della cuccagna, in vece del solito pollastro, 20 milioni di euro a ciascuno dei vincitori, uno per regione. La trovata è romanzesca: la formula del bando rispetta il principio narrativo che impone un protagonista in bilico fra gloria e perdizione. Apparentemente encomiabile, l'operazione di soccorso è in realtà un costoso, pericoloso azzardo. Per cui ben venga la cannonata accademica contro il decreto del PNRR sui borghi (Contro i borghi, Donzelli, pagg. 208, euro 18): 22 saggi di storici dell'architettura, urbanisti e intellettuali coordinati da Filippo Barbera, Domenico Cersosimo e Antonio de Rossi. Si va dall'ironia sul «piccoloborghismo» al sarcasmo sui «borghi iperuranei di Franceschini» per finire nel dileggio («ma rispetto alla Rai, il ministero della Cultura ha fatto di peggio».)

I saggi sono accomunati da una chiave: il «bando borghi», come il bisturi di un folle chirurgo, divide. Divide i borghi dal loro passato, perché ne propone una «calcificazione» che riduce la loro storia a una sola dimensione. Divide i borghi dalla vita quotidiana di chi vi abita: «chiese senza parrocchiani, musei senza visitatori, castelli senza castellani». Divide il borgo dalle sue attività: il borgo è letto «come semplice patrimonio materiale, con la conseguenza di trasformarlo in una messinscena scenografica». Li divide dal territorio circostante, operazione inaugurata da Pasolini in un celebre documentario su Orte dove la camera prima sottolineava il fascino del nucleo originario del borgo, poi passava a riprendere gli edifici moderni di cui si sottolineava la bruttezza. Li divide dagli altri piani per salvare i piccoli centri urbani. Li divide, naturalmente, dagli altri borghi: «poche selezionatissime località sono scelte impiegando la retorica delle eccellenze, parte essa stessa del discorso neoliberista. Si configura così una politica straordinaria per borghi straordinari, come se ci fossimo scordati che la Repubblica italiana ha il compito di rimuovere gli ostacoli che limitano la libertà e l'eguaglianza (art. 3 della Costituzione)». E li separa dal futuro, perché vincere venti milioni d'euro alla lotteria non garantisce la nascita di un impero finanziario. Tirate le somme, ecco delinearsi la grande mistificazione: «I borghi tipici e belli oscurano i paesi, annichiliscono la rilevanza del contesto che permette al paese di vivere e plastificano la comunità locale in un presepe».

Osservazioni ineccepibili, alle quali si potrebbe aggiungere un'argomentazione di rincalzo. Quando nascono, intorno all'anno Mille, i borghi sono centri urbani fuori delle mura cittadine che si rendono indipendenti dal castello del nobile, infischiandosene delle minacce del papa e dell'imperatore; vi si forma un'ideologia pragmatista, si neutralizza la plebe togliendole ogni potere e, se ne chiede, si impiccano gli arruffapopolo per rimettere il bargello al suo posto, ammesso che fosse ancora vivo. Non vi basta? Per dotarsi di un'ideologia che giustifichi la loro illegalità, i ribelli borghigiani mandano i loro notai a studiare a Bologna e a Padova le testimonianze relative alle repubbliche antiche, innescando involontariamente il culto per il mondo classico cui si deve la direttiva repubblicana alla base della Rivoluzione francese e del Risorgimento italiano.

Come a dire che con il bando l'agiata borghesia cittadina, che costituisce gran parte della classe politica di sinistra, restituisce il favore e ne approfitta per ridurre i paesi a borghi: fuor della middle class non v'è salvezza. Come stupirsi che l'ipocrisia regni sovrana?

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