Coronavirus, il post straziante di Gabriele Corsi: "Era mio padre. Quello nei necrologi di ieri"

Gabriele Corsi ha speso tante parole per sensibilizzare al coronavirus su quelle morti che molti reputano minori, di poca importanza, solo perché si tratta di anziani e malati

Coronavirus, il post straziante di Gabriele Corsi: "Era mio padre. Quello nei necrologi di ieri"

Il coronavirus ha colpito tutti, la sensibilità di ognuno di noi in questi giorni di quarantena forzata è cresciuta esponenzialmente. Ogni giorno vengono diramati bollettini che si avvicinano agli scenari di una guerra, silenziosa e misteriosa. Ci sono i nuovi contagiati, colpiti dai "proiettili" del virus. Ci sono i decessi, caduti in battaglia, per le quali le ferite erano evidentemente troppo gravi per riuscire in una ripresa. Poi ci sono i guariti, quelli che sono riusciti a vincere la loro personale battaglia contro il coronavirus, che ben presto potrebbero di nuovo essere chiamati alla guerra, perché nessuno sembra essere al sicuro. Gli anziani, la memoria storica del nostro Paese, stanno pagando il prezzo più alto di questa epidemia e pare che a pochi interessi. Il coronavirus sta mietendo tantissime vittime tra gli over 65, soggetti considerati deboli, quindi per alcuni sacrificabili. A loro va il pensiero di Gabriele Corsi, in un lungo post toccante sul suo profilo Instagram.

"Era mio padre. Quello della foto un po’ sfocata nei necrologi di ieri. Era mio padre. Lo ricordo con una barba nera nera che mi insegnava a dare calci a un pallone nel parco sotto casa", esordisce Gabriele Corsi nel suo lungo post, sottolineando come qualunque morto possa essere caro a qualcuno altro, come qualunque anziano sia potenzialmente il padre di ognuno di noi. E poi continua l'attore, come un lungo elenco, per sensibilizzare sul fatto che gli anziani che cadono colpiti dal coronavirus non siano solo numeri e non siano solamente over, ma persone con affetti, famiglie e persone vicine: "Era mia madre. Quella signora elegante morta da sola in ospedale perché non si poteva entrare. Il dolore più grande. Lei. Da sola. Era mia madre. Che mi faceva posto nel letto grande quando avevo la febbre e mi sembrava, sempre, l’unica cura possibile."

Gabriele Corsi, nel suo lungo post, racconta il dramma degli ospedali italiani in piena emergenza coronavirus. Di quei pazienti che entrano col terrore negli occhi nelle camere intensive improvvisate ma perfettamente gestite dal personale medico, eroi in trincea che quotidianamente cercano di salvare quante più vite possibili. Racconta il dramma dell'isolamento vissuto da chi sa che superando quella porta, per chissà quanti giorni o settimane non rivedrà più nessuno dei suoi cari, ma solo medici e infermieri dietro le loro tute protettive, senza forma e senza identità, dalle quali provano comunque a regalare un sorriso. Nonostante tutto. "Era mio zio. Quel signore con gli occhiali che se n’è andato tra i tanti ieri. Era mio zio. Lo stesso che mi portava a giocare con i modellini di aerei e mi faceva volare restando con i piedi a terra. Era mia zia. La signora senza foto. Solo data di nascita e di morte. Era mia zia. Perché non possiamo neanche andare a casa sua a cercare una polaroid che la ritragga. Lei che a Natale mi ha regalato la prima macchina fotografica", spiega Corsi, riassumendo il dolore e lo strazio delle famiglie.

"Erano mio padre. Erano mia madre. Erano i miei zii, i miei vicini, i genitori, i parenti dei miei amici. Quelli che, adesso, non possiamo piangere. Quelli che, adesso, non possiamo abbracciarci per lenire il dolore. Quelli che tu non sai chi sono. Ma io sì. Quelli che, per qualcuno, sono 'muoiono solo i vecchi', 'sì, ma erano già malati', 'ne muoiono molti di più per altre cause'.

E, se sei tra quelli, vuol dire che questo, tutto questo, non ti ha davvero insegnato niente", conclude Gabriele Corsi, cercando di far riflettere su una situazione che non sembra più essere sostenibile.

Era mio padre. Quello della foto un po’ sfocata nei necrologi di ieri. Era mio padre. Lo ricordo con una barba nera nera che mi insegnava a dare calci a un pallone nel parco sotto casa. Era mia madre. Quella signora elegante morta da sola in ospedale perché non si poteva entrare. Il dolore più grande. Lei. Da sola. Era mia madre. Che mi faceva posto nel letto grande quando avevo la febbre e mi sembrava, sempre, l’unica cura possibile. Era mio zio. Quel signore con gli occhiali che se n’è andato tra i tanti ieri. Era mio zio. Lo stesso che mi portava a giocare con i modellini di aerei e mi faceva volare restando con i piedi a terra. Era mia zia. La signora senza foto. Solo data di nascita e di morte. Era mia zia. Perché non possiamo neanche andare a casa sua a cercare una polaroid che la ritragga. Lei che a Natale mi ha regalato la prima macchina fotografica. Erano mio padre. Erano mia madre. Erano i miei zii, i miei vicini, i genitori, i parenti dei miei amici. Quelli che, adesso, non possiamo piangere. Quelli che, adesso, non possiamo abbracciarci per lenire il dolore. Quelli che tu non sai chi sono. Ma io sì. Quelli che, per qualcuno, sono “muoiono solo i vecchi”, “sì, ma erano già malati”, “ne muoiono molti di più per altre cause”. E, se sei tra quelli, vuol dire che questo, tutto questo, non ti ha davvero insegnato niente.

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