Così il Duce perse la guerra prima di averla iniziata

A "èStoria" Gianni Oliva e Marco Mondini parleranno della politica militare (disastrosa) del Fascismo

Così il Duce perse la guerra prima di averla iniziata

«Otto milioni di baionette», «libro e moschetto, fascista perfetto»: la retorica del fascismo sulla militarizzazione della Nazione italiana - una sorta di vera Italia fondata sulla resistenza sul Piave e sulla vittoria di Vittorio Veneto - è stata una delle componenti del Ventennio più studiate dagli storici. E caratterizzò i discorsi mussoliniani sin dalle origini, prima della Marcia su Roma di cui quest'anno ricorre il centenario. Eppure dopo anni passati al potere e dopo una politica muscolare, portata avanti in Etiopia, e nella Guerra di Spagna, il regime si presentò completamente impreparato al Secondo conflitto mondiale. Sono alcuni dei temi di cui si discuterà ad èStoria (27-29 maggio) - il festival di quest'anno ha come filo rosso «fascismi» - durante l'incontro dedicato a «L'apparato militare del Fascismo» che si terrà domenica a Gorizia con Marco Mondini e Gianni Oliva. Abbiamo intervistato in anteprima i relatori per capire questa contraddizione che ha portato l'Italia verso il disastro militare.

Ci spiega Marco Mondini, che insegna History of conflicts e Storia contemporanea all'Università di Padova, che l'origine della sconfitta italiana è radicata già nei primi passi del movimento fascista. «Il fascismo si pone da subito come un partito milizia. In contrapposizione con l'Italia delle fragilità parlamentari, delle sconfitte coloniali. Porta avanti una lotta all'antimito dell'Italia imbelle. Quindi una volta al potere i fascisti investirono moltissimo sull'educazione e sulla propaganda per la creazione di un italiano nuovo. Ma non funzionò davvero, fu innanzi tutto un fallimento pedagogico. Gli studenti nel 1915 risposero subito alla chiamata alle armi. Ma nel 1940 gli universitari di Roma protestarono per la sospensione dei rinvii per motivi di studio. Se a questo aggiungiamo che mancava una strategia operativa e che dal subitaneo bombardamento del porto di Genova ad opera dei francesi risultò chiaro come stavano le cose...».

Sullo stesso tema Gianni Oliva, autore tra gli altri saggi di La guerra fascista. Dalla vigilia all'armistizio, l'Italia nel secondo conflitto mondiale (Mondadori) chiosa: «Le forze armate garantirono al Regime tutto quello che serviva per la propaganda, tutto il supporto che il Duce voleva, su questo ci sono state sempre, ovviamente, però ne ottennero una sostanziale non ingerenza nelle loro scelte... E dei generali sganciati dalla politica spesso si muovono su percorsi che poco hanno a che fare con l'efficienza bellica. Faccio un esempio. Negli anni Trenta si ragionò moltissimo in Europa e non solo su come aumentare la mobilità delle truppe. In Italia si decise di occuparsi del tema facendo passare le divisioni da ternarie (su tre reggimenti) a binarie (su due reggimenti) ma la mobilità è data da quanti mezzi di trasporto hai... Però di sicuro con più divisioni più piccole aumentavano, di un terzo, i posti da generale di divisione».

Esisteva poi, spiega Mondini, una mancanza di visione strategica: «L'Italia nel 1940 entra in guerra male armata ma soprattutto senza idee e senza coordinamento, manca anche quello che si possa considerare un vero e proprio alto comando. C'è una sorta di diarchia Badoglio/Mussolini i cui effetti si videro ad esempio nella campagna di Grecia. Badoglio era il simbolo di una gerontocrazia militare. Attorno a Mussolini c'era invece molto dilettantismo. Basta pensare a Galeazzo Ciano e alla gestione dell'Albania e appunto della campagna di Grecia. Ma i problemi di pianificazione andavano anche oltre. Mancò completamente la capacità di mobilitare l'apparato industriale. Il governo liberale italiano nella Prima guerra mondiale, un governo molto rispettoso della proprietà privata, riuscì a far convergere gran parte delle imprese italiane verso lo sforzo bellico, le militarizzò. Col fascismo non accadde nulla di simile. Anche la macchina bellica nazista all'inizio del conflitto aveva grossi limiti, ma l'industria tedesca si piegò immediatamente alle esigenze del regime. In Italia non accadde nulla di simile».

Secondo Oliva: «Siamo entrati in guerra con 22mila automezzi di 11 marche diverse che è come dire che mancava qualsiasi idea di logistica. La guerra d'Etiopia aveva svuotato gli arsenali ed era stata uno sforzo enorme. Aggiungiamoci che si era sempre pensato ad una guerra difensiva. Mussolini ha giocato sul bluff e l'ha pagata carissima. La marina ad esempio non aveva mai pensato di dover operare contro la flotta inglese. Men che meno si è tentato di occupare subito i porti delle colonie francesi, che avrebbero consentito di rifornire molto meglio le forze italiane in Africa. Si è andati verso Nizza e la Savoia per questione di immagine. Mussolini era un abilissimo comunicatore ma non in grado di gestire scelte strategiche. Una delle poche mosse sensate invece, ovvero cercare di bloccare il canale di Suez fu affidata a un generale, Graziani, che veniva dalla vecchia guerra coloniale e non aveva idea della guerra di movimento. Fece cento chilometri mentre gli inglesi gli sfuggivano e poi si mise ad aspettare il genio per allungare la Via Balbia».

Responsabilità gravi del regime dovute anche ad una completa acquiescenza dei militari che, dopo la guerra, molti cercarono di far passare per un'altra cosa.

«C'era un vuoto di cultura militare in Italia, non avevano capito la nuova guerra globale - ci dice Mondini - Dopo l'8 settembre molti generali dichiararono di essere stati quanto meno a-fascisti... Di aver protestato. Ma non lo fece davvero nessuno, o lo fecero a bassa voce o troppo tardi. A partire da Badoglio. Nessuno lasciò la poltrona».

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