Certe storie sembrano partire dai titoli di coda.
Anni fa, c'era un gruppo di ragazzi a Seattle. Si frequentavano la sera, vivevano assieme in case in affitto a prezzi stracciati, suonarono assieme per un po'. Ascoltavano il rock dei primi Anni 70, i Kiss e i Black Sabbath. Erano cresciuti circondati dal punk, ma anche dal metal. In città vivevano i Queensryche, che scrivevano concept album plumbei e complessi, all'epoca venivano considerati star mondiali. Ma quei ragazzi ascoltavano altra musica.
Avevano i vecchi dischi di un'altra band locale, i Sonics, che negli Anni Sessanta rallentando il garage rock si erano messi a suonare psichedelia. E se provi a suonare il punk più lento? Se ci metti gli effetti del metal, cosa viene fuori?
Era il 1985 quando l'oscura C/Z Records pubblicò la compilation Deep Six, il primo disco a mettere insieme certi gruppi locali, quello che ti fa dire: «Ecco il suono di Seattle». C'erano Malfunkshun, Soundgarden, Green River, i Melvins, Skin Yard e gli U-Men. Le chitarre suonavano lente e poderose, come camion che scivolano nello sciroppo d'acero. I tour delle grandi band americane allora non facevano tappa a Seattle. Nessuno aveva voglia di pigliarsi ore di pioggia e arrivare lassù per esibirsi davanti a quattro gatti. Il suono del Nord-Ovest è nato così, tra la programmazione radio della KCMU, in club come lo Squid Row, il Gorilla Gardens, la Rainbow Tavern, dove questi gruppi non subivano la concorrenza delle star di Los Angeles e New York. Era divertente. Non doveva essere altro.
Uno di questi ragazzi, il più carismatico, si chiamava Andrew Wood. Non sembrava neanche uno di lì. Amava il glam, i vecchi dischi di Marc Bolan. È lui a creare i Malfunkshun, insieme a Regan Hagar. I due si uniscono a due degli strumentisti più preparati della scena locale, il chitarrista Stone Gossard e il bassista Jeff Ament, che vengono dai Green River. Dopo il caos primordiale, è il momento della separazione delle acque. Ci sono musicisti con un'attitudine più punk, che preferiscono restare nel giro delle piccole etichette indipendenti, e finiscono per confluire nei Mudhoney. Altri più ambiziosi, sono aperti alla collaborazione con le grandi produzioni delle major discografiche. Nascono così i Mother Love Bone, che firmano per la Polygram. Il contratto spinge Andrew, che ha una dipendenza dall'eroina, a entrare in un centro di riabilitazione a Monroe. È un cliché delle rockstar, e sembra a tutti una specie di passaggio obbligato, ora che Seattle ha trovato i suoi Guns'n'Roses. I Mother Love Bone sono visti da tutti come la band che farà decollare la scena. Una mattina di marzo Xana, la fidanzata di Andrew, trova il ragazzo riverso sul letto, in coma dopo un'overdose. Viene ricoverato in terapia intensiva, ma non c'è niente da fare, i genitori danno l'assenso a staccare le macchine. Circondato dagli amici, Andrew muore con il sottofondo teatrale di A night at the Opera dei Queen. Il disco di debutto dei Mother Love Bone, Apple, esce quando la band non esiste più.
Gossard e Ament si perdono di vista per qualche tempo. È un chitarrista, Mike McReady, a rimetterli assieme, e convincerli a registrare nuovo materiale. Con Wood se n'è andata l'attitudine glam, quel modo di cantare che non c'entrava troppo con Seattle e il suono limaccioso delle chitarre. Quello stile è morto e sepolto. I nastri vengono spediti a Jack Irons, il batterista che ha mollato I Red Hot Chili Peppers dopo la morte di Hillel Slovak per droga. «Io non posso stare in un gruppo che può uccidere i miei amici», dice Jack nel momento in cui lascia la lanciatissima band californiana. È un po' la dichiarazione d'intenti che condivide con Stone Gossard. Niente eccessi, solo musica. Irons conosce un benzinaio di San Diego, Eddie Vedder, che canta in un piccolo gruppo, i Bad Radio. Eddie ascolta le registrazioni, e scrive il testo di tre canzoni, che sono l'embrione di Alive, Once e Footsteps. Ha avuto una vita dura. Suo padre è morto di sclerosi multipla. La madre, di cui ha acquisito il cognome, si è risposata con un uomo che lo tratta in maniera brutale. Si mantiene agli studi con lavori notturni. Ha fatto la guardia di sicurezza, è stato alla cassa in un drugstore.
Nulla di particolarmente artistico. Ha una voce baritonale, simile ai grandi vocalist dei gruppi degli Anni Settanta, scrive canzoni che parlano di solitudine, infanzie disagiate. Fa surf. Il glam non sa nemmeno dove stia di casa. Vedder, Gossard, Ament e McReady creano i Mookie Blaylock. Il nome è preso da un giocatore di basket, un difensore degli Oklahoma Sooners. Manca il batterista, il ruolo resterà a lungo una porta girevole. Suonano al Moon Theatre di Seattle il 22 dicembre del 1990, di spalla agli Alice in Chains, la costola metal della scena.
Il materiale per il primo disco è sostanzialmente pronto, e ci mancherebbe altro. Gossard scrive e riscrive la stessa canzone ormai da cinque anni. Prima per i Green River, con taglio punk, poi per Wood, mutata in glam, e infine per Vedder. Alla prima intervista, il nome della band diventa Pearl Jam, che evoca lunghe session strumentali. Ten, l'album di debutto, esce il 27 agosto 1991, meno di un mese prima di Nevermind. Il titolo è ispirato al numero di maglia di Blaylock. È rock americano, epico, suonato con due chitarre, e tutto lo spazio necessario tra gli strumenti, suddiviso tra tempi veloci e ballate. Kurt Cobain li accuserà di aver infarcito i brani di assoli di chitarra, tradendo l'attitudine degli esordi. I pezzi sono ambiziosi, circolari, pieni di pathos, tutt'altro che informali. Le registrazioni al London Bridge Studio di Seattle vedono a lungo impegnati solo Ament e Gossard, e la coesione di lunga data dei due produce un debutto già pienamente maturo. I Pearl Jam centrano il bersaglio pieno al primo colpo. La loro discografia presto si orienterà verso un suono classico, da stadio, a forte gradiente di déjà-vu. Ten comincerà a vendere gradualmente, aiutato dal video di Jeremy, trasmesso in maniera martellante da MTV. La canzone racconta la vicenda di un sedicenne texano che si suicida davanti ai compagni di classe. Un fatto di cronaca trasfigurato in un archetipo generazionale.
A fine inverno 1992 i Pearl Jam suonano qualche data promozionale in Europa. Viene trovata una data milanese, ma i promoter non credono troppo nella potenzialità della band, che finisce per suonare al Sorpasso, un club da cover band di studenti, in via General Govone. Ingresso diecimila lire con consumazione. Capienza cento persone.
Ne entreranno trecento.
Le telecamere di Videomusic riprendono l'esibizione, sul palco c'è a stento posto per tutti e cinque. Vedder canta con un cappello da baseball rigirato sulla testa. Come un b-boy qualsiasi. Come un benzinaio che si crede il cantante di una grande band.
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