Così nell'epoca dei Lumi il buio del Gotico restaurò la letteratura

Nel Settecento il razionalismo stava inaridendo il romanzo. Furono paura e mistero a salvarlo

Così nell'epoca dei Lumi il buio del Gotico restaurò la letteratura

Il buio calò nell'epoca dei Lumi. Non fu un paradosso, bensì la reazione a un'azione, come avviene sempre in natura. No, qui non stiamo parlando del buio del Terrore, pendant a sua volta bestialmente naturale della Rivoluzione francese, bensì del buio della letteratura gotica. In pieno Settecento, quando le coordinate sociali, politiche, economiche, culturali del mondo occidentale cambiano, assumendo come stella polare la ragione, fatalmente l'irrazionale, brutalmente confinato in soffitta (o meglio, in cantina, nella buia e inquietante cantina...) se non ghigliottinato insieme all'Ancien Régime, reprime la propria rabbia finché può. Ma poi esplode letteralmente con fuochi d'artificio, cioè con l'artificio del bric-à-brac costituito da vecchi arnesi pre-industriali: i fantasmi, i morti viventi, l'erotismo, il mistero, i travestimenti. Insomma, tutto ciò che è buio, innominabile, peccaminoso, consono all'hortus conclusus di un monastero, di un'abbazia, di un castello, di un cimitero, di un'isola.

Il gotico moderno che dunque nasce già vecchio, passatista, prendendo in prestito il nome e le atmosfere dal Medioevo dei secoli (ancora una volta) bui, è una Restaurazione. Ma una Restaurazione non nostalgica dello sfarzo e della pompa. Al contrario, sensibile al richiamo dell'ancestrale, degli umori corporali e psichici che sono causa ed effetto della paura.

Nella sua Guida alla letteratura gotica (Odoya, pagg. 255, euro 18), Fabio Camilletti, docente di Letteratura italiana all'Università di Warwick, in Inghilterra, con un inciso definisce (incisivamente) il gotico «escrescenza purulenta di un'epoca di transizione». Non è la classica «voce del sen fuggita», è un ritratto perfetto. Che le parole di un genio, il Giacomo Leopardi del Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, opportunamente citate da Camilletti, definiscono ancora meglio: «Imperocché quello che furono gli antichi, siamo stati noi tutti, e quello che fu il mondo per qualche secolo, siamo stati noi per qualche anno, dico fanciulli e partecipi di quella ignoranza e di quei timori e di quei diletti e di quelle credenze e di quella sterminata operazione della fantasia».

Si noti che «gotico» in tal senso, in Italia, ai tempi di Leopardi e oltre era un termine sconosciuto. Per dire «gotico» si diceva, appunto, «romantico». Cioè potremmo inferire, seguendo il grande Giacomo, «fanciullo», «inesperto», «ingenuo», «stupefatto». Dunque l'Italia non fu, come affermano in molti fra i quali Italo Calvino, aliena al gotico. Semmai ci arrivò con un poco di ritardo rispetto ai limiti temporali ricordati da Camilletti (quelli che vanno da Il castello di Otranto di Horace Walpole del 1764 a Frankenstein di Mary Shelley del 1831), vale a dire con la Scapigliatura della seconda metà dell'Ottocento.

Nel resto d'Europa, invece, «gotico» si diceva eccome. Aggiungendo puntualizzazioni di senso e di forma. Gli inglesi usavano «horror», «terror», «supernatural» o «German», in ossequio filologico proprio al gotico delle cattedrali germaniche. I francesi parlavano di «roman anglais», di «roman noir», di «littérature frénétique». I tedeschi, essendo tedeschi, preferivano essere più precisi, distinguendo «Shauerroman» (romanzo del brivido) da «Gespensterroman» (romanzo di fantasmi) e da «Räuberroman» (romanzo di banditi).

Ma sui soggetti ricorrenti, sulle figure che, come nella commedia dell'arte, non possono mancare nella vasta schiera della compagnia chiamata a rappresentare il gotico, tutti concordavano: il monaco vizioso come quello di Lewis, la «moglie sanguinante» (e dunque anemica non necessariamente per colpa di un vampiro in stile Polidori), la creatura che incarna le forze ataviche e ingovernabili (pur senza le deformazioni macchiettistiche esercitate dal cinema su quella del dottor Victor Frankenstein), il nobile decaduto, l'errante (non necessariamente ebreo) condannato a vagare senza posa, il manoscritto ritrovato, il mago, il doppio, la tomba, la bara... È come se il fisico si trasformasse in metafisico, in proiezione della mente, in oggetto manipolato da un surrealismo ante litteram o sottoposto a una seduta di psicanalisi di massa. Massa, infatti, è una parola chiave, anche se non espressamente presa a tema.

Se infatti i Lumi illuminavano il popolo con l'intento di liberarlo dalle caligini brumose dell'ignoranza e della sottomissione, non esclusa la sottomissione alla religione, nel contempo lo privavano di quanto fino ad allora aveva alimentato il suo immaginario: leggende, tradizioni, folklore, miti. Tutto materiale che si dissolve non appena investito dal cono della luce razionalistica, come i tanti Dracula dei B-movie fuggono di fronte a una testa d'aglio... Ma, lo aveva già detto un altro genio senza tempo come Leopardi, Blaise Pascal: «Il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce». E quando gli vengono sottratte, queste ragioni, vuole riprendersele. A ridargliele furono dei borghesissimi rivoluzionari come Jan Potocki, Clara Reeve, E.T.A. Hoffmann, lord Byron, Charles Maturin, Jane Austen e molti altri, chiamati qui a raccolta da Camilletti.

Senza dimenticare, oltre alla non-morta Silvia di Leopardi, quel milanese

don Lisander che, molto goticamente, tortura per alcune centinaia di pagine una coppia di fidanzati e non solo loro. E, sotto le falde del suo nero pastrano, accoglie, insieme al romanzo storico, anche il romanzo gotico.

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