Sul politicamente corretto, l'ideologia che oggi domina nel mondo intellettuale occidentale, ci sono buoni testi che affrontano il tema ad ampio spettro e in maniera esaustiva: da quello di Douglas Murray, che parla di «pazzia delle folle», all'altro, in Italia, di Eugenio Capozzi. Cosa aggiunge ad essi il volume di Giovanni Sallusti, appena pubblicato, è presto detto: la capacità di spiegare a tutti, anche ai lettori veloci e distratti, questo fenomeno, e soprattutto i pericoli per la nostra civiltà che da esso derivano. Rischi evidenziati sin dal sottotitolo, che ha solo apparentemente il sapore dell'ossimoro e del paradosso: Politicamente corretto. La dittatura democratica (Giubilei Regnani, pagg. 133, euro 13). Anche se l'autore usa un registro giornalistico «di pancia», non disdegnando però l'ironia e il sarcasmo, e condisce di esempi concreti presi dalla cronaca recente il suo racconto, non si può non ammettere come il volume segua uno sviluppo logico e lineare e tocchi i principali aspetti teorici della faccenda. Partendo infatti dalla sua identità personale, di maschio, bianco, cristiano ed eterosessuale, Sallusti snocciola davanti ai nostri occhi quattro capitoli, che sono veri e propri «atti», come li chiama, di una tragedia che è quella dell'Occidente odierno. Il quale non è tanto semplicemente al «tramonto», o in «declino», ma ha sviluppato una strana «malattia»: quella di una civiltà che odia se stessa, la sua cultura, le sue tradizioni, la sua storia. E che vuole non migliorarsi ma autoannullarsi per costruirsi daccapo, su basi astratte in parte surreali e in parte pericolose.
La cultura che indirizza questa trasformazione in pochi anni ha preso il dominio delle menti più colte, e della più vasta opinione pubblica «riflessiva», vuoi per ribellione verso la cultura classica, cioè la vera cultura, vuoi per il naturale spirito gregario (la «morale del gregge» di nietzschiana memoria) che contraddistingue l'essere umano. La sua particolarità è di continuarsi a credere controccorrente e rivoluzionaria pur costituendo ormai, con tutta evidenza, il nuovo conformismo di massa, e anche di élite avendo attecchito nelle università, nei media, e in genere in tutti i sistemi di formazione e informazione. Ritornando all'identità di Sallusti, i quattro elementi di cui è composta costituiscono, per i nuovi conformisti, qualcosa di cui vergognarsi, sentirsi colpevole: qualcosa che bisogna assolutamente sradicare negli specifici ambiti in cui hanno corso. Essere maschio significa appartenere a una cultura fallocratica, cioè aggressiva e sopraffattrice a prescindere, che ci rende «colpevoli» anche se siamo le persone più miti che possano esserci. La «colpa» di essere bianchi è invece quella di non aver vissuto le esperienze piene di senso (presunto) che avrebbero quelle degli appartenenti ad altre razze. Quanto al cristianesimo, esso viene trattato alla stregua di una superstizione che va coltivata di nascosto per non offendere i fedeli di altre religioni, ai quali è però concesso di ostentare simboli e vestiario come forme di rispetto per la loro identità «altra». L'eterosessualità è invece una «colpa» per il semplice fatto che chi la pratica, rivolgendo la propria attenzione esclusivamente all'altro sesso, riduce i rapporti fra gli esseri umani ad una sola dimensione e per giunta quella biologica, mentre il gender è qualcosa di fluido e creativo che uno dovrebbe poter indossare e riporre poi nell'armadio come un qualsiasi vestito.
Sallusti, oltre a indicarci diversi cortocircuiti logici ed etici a cui va incontro il politicamente corretto, mostra con chiarezza come questa ideologia, nata per includere e riconoscere le diversità fra gli uomini, finisca per imporre una sorta di «pensiero unico» che esclude perché impedisce a priori ogni possibile messa in discussione dei suoi diktat. Il fatto che essa agisca in nome di buoni sentimenti, e con intenti democratici, non la fa essere diversa da una qualsiasi dittatura storica, di cui anzi rappresenta una evoluzione e radicalizzazione: il suo essere soft e «gentile» la fa raggiungere in modo pervasivo le mente, oltre ai corpi, degli individui. Chi pensa altrimenti, è delegittimato moralmente prima che intellettualmente. E a volte finisce per esserlo anche penalmente, come mostrano proposte di legge come quella che in Italia porta la firma dei deputati Zan e Scalfarotto contro la «omobitransfobia». Su di essa l'autore di questo libro si sofferma in pagine lucidissime, a conclusione del suo volume.
Ritornando invece all'operazione di reset e reengineering connessa al politicamente corretto, è evidente che si tratta di una malattia già presente, con diversi gradi e modalità di espressione, nei totalitarismi che hanno funestato la storia del Novecento, tutti protesi a creare l'«uomo nuovo», e in genere in buona parte della vicenda storica della sinistra. Soprattutto quella di più evidente derivazione illuministico-giacobina, elemento sempre in contraddizione nel marxismo storico con l'altro del realismo politico.
Di fronte a questa tensione trasformatrice e palingenetica, che oggi assume le forme rarefatte delle utopie verdi e digitali, il liberalismo, sulle orme del cristianesimo, ha sempre tenuto in conto l'imperfezione dell'essere umano, il suo inestricabile mix di bene e male. E in verità, a ben vedere, è proprio la perdita di questo sentimento tragico dell'esistenza, la malattia più profonda che ci ha colto e di cui questa ideologia terminale è la più compiuta espressione.
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