Così il Vate indagava la vita di Gesù. Alla ricerca di un Dio, ma molto umano

Ecco gli appunti di D'Annunzio per tratteggiare una biografia di Cristo

Così il Vate indagava la vita di Gesù. Alla ricerca di un Dio, ma molto umano

L'immagine che ci viene sempre sottoposta di un Gesù soltanto dolente o al meglio - amorevolmente sorridente, è una forzatura religiosa al pari di quella del Buddha sempre di buonumore. Occorre cercare di immaginare Gesù, uomo, che viveva e si comportava secondo le regole e le abitudini del suo tempo, del suo luogo e della sua condizione economica. Che si lavava diverse volte al giorno seguendo i rituali ebraici, che chiedeva alla madre di rammendargli la tunica e al padre consigli per il lavoro. Gli evangelisti non descrivono il suo aspetto, dunque certamente ne aveva uno normale, da ebreo del suo tempo, inconciliabile con il volto che ci ha tramandato l'iconografia: naso vistoso, pelle olivastra, capelli neri più ricci che lisci, piccola statura.

Com'è avvenuto per il viso di Cristo, la teologia cristiana prima e quella cattolica dopo hanno caricato il suo messaggio con addobbi, paramenti, complicazioni e distinguo, ma è la semplicità del messaggio a colpire la mente e il cuore degli uomini sensibili all'uomo, religiosi o no che siano. Non credente, Gabriele d'Annunzio vede in Gesù e nella sua vita terrena «una meravigliosa materia d'arte» ricca di «stimoli artistici», per la modestia della sua vita e l'altezza della sua parola. Se ne interessò fin da ragazzo e a trent'anni, nel 1893, scrisse al suo editore di avere finalmente messo in programma «una Vita di Gesù che medito e preparo, e alla quale mi darò con ardore nell'estate prossima». Il progetto, come tanti conservati negli archivi del Vittoriale, non si realizzò, ma gli scritti adesso raccolti e curati da Angelo Piero Cappello (Studi su Gesù. Appunti, Taccuini, Parabole, Ianieri Edizioni, 200 pagine, 10 euro) dimostrano quanto profonda e continua sia stata l'idea di uno scritto sulla vita del Galileo.

In queste pagine preziose e quasi sconosciute il poeta vede in Cristo la vetta dell'uomo e della parola, là dove si nasconde l'ansia di eterno e di infinito che fa di ogni uomo un dio: «Figlio, non v'è dio se non sei tu quello», scrisse nel Forse che sì forse che no. E, quando per la prima volta racconta di avere incontrato Gesù, ci parla di due uomini, l'uno di fronte all'altro, ognuno dei due consapevole della propria straordinaria identità umana e divina: «Incontro per la prima volta il Maestro in un palmeto di Gerico, dove io sono intento a raggiungere i frutti che gravano la cima d'un palmizio Egli mi guarda e si tace. L'oro del sole cribrato dai palmizi tremola sopra di noi. Mi pare egli preso nella mia finzione e nella mia tentazione come in una rete splendente Egli è solo, senza onniveggenza, senza onnipotenza, senza incanti, senza prodigi, solo con la sua midolla di eroe nel suo fragile ossame, solo con la severa sua immortalità nel suo corpo morituro. E solo io sono il suo seguace».

A unire i due uomini, eroi immortali compresi nel loro fragile ossame di morituri, è la parola, quel che dicono e sanno dire al mondo.

E Gabriele, in questo, sa di essere anche lui Maestro: «Se la lotta è arte, l'arte è lotta. Lo so... traudire, travedere sono gli indizii della mia infermità immortale». Tutta la deità dell'uomo sta nel rendere con le parole quell'infermità immortale.

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