Quasi calvo e con un’aria fintamente paciosa, Matthew Weiner somiglia più al James Gandolfini de I Soprano che al John Hamm di Mad Men. Ma sebbene abbia sceneggiato la serie sulla famiglia mafiosa italoamericana, la creatura nella quale si rispecchia di più è Don Draper, misterioso capo dei creativi dell’agenzia pubblicitaria nella quale è ambientato il telefilm da lui ideato. Forse il serial più famoso, premiato e apprezzato al mondo. Ieri Weiner era ospite del summit sulla comunicazione dell’Upa (Utenti Pubblicitari Associati). Nel 2011 Time magazine l’ha inserito tra le cento persone più influenti del pianeta e la rivista The Atlantic lo considera tra le 21 persone più capaci di sconfiggere i luoghi comuni. La quarta stagione di Mad Men andrà in onda a settembre su Rai4, la rete digitale che domenica sera dedicherà alla serie la puntata di Mainstream. In autunno Fox trasmetterà la quinta stagione.
Mister Weiner, oggi molte serie tv si avventurano nel futuro. Con Mad Men lei ha realizzato uno show retro per parlare del presente. A cosa si deve la sua contemporaneità?
«Ciò che è diverso dal presente è altrettanto interessante di ciò che è uguale. È arrogante pensare che qualsiasi esperienza umana attuale sia più interessante. D’altra parte conosciamo soltanto il tempo in cui viviamo e penso che il successo del mio show sia dovuto al fatto che queste epoche sono molto simili».
Quali sono i motivi del successo di Mad Men?
«È una combinazione tra il cast, lo stile della narrazione e l’ambientazione invitante. Lo show tratta l’esperienza umana in modo non idealizzato e così molta gente può riconoscersi. Negli ultimi anni il pubblico non ha avuto questa chance nell’intrattenimento. Per le persone che non vogliono guardare dentro la propria vita Mad Men è noioso».
Perché ha scelto come protagonista un uomo che ha assunto l’identità di un suo compagno morto nella guerra di Corea?
«In Italia avrei fatto scelte diverse. Ma ho letto nella biografia di Federico Fellini le pagine in cui, parlando di Rimini, spiegava l’insicurezza per la propria origine provinciale quando era arrivato a Roma. I romani erano tutti sofisticati e cosmopoliti. Ecco: in America tutti sono originari di Rimini, ma facciamo finta di essere romani».
Da quali altri libri e altri film è spuntato Don Draper?
«Dai brevi racconti di John Cheever. E da Il Grande Gatsby. È la storia di un uomo che si legittima attraverso il successo e poi inventa una storia su come è avvenuto. Pensi quanti italo-americani hanno cambiato nome».
Draper si chiede «che cosa vogliono davvero le donne». Deve chiederselo ancora oggi chi lavora nella pubblicità?
«Come un buon scrittore, Draper prova a mettersi nei panni di altri. A volte con i tacchi alti».
Com’è cambiato il modo di rappresentare il consumismo da Mad Men a Desperate Housewives?
«Chi guarda queste serie non pensa di essere influenzato dalla pubblicità. Ma più il pubblico è colto e ha successo, più la pubblicità funziona. Così i due show si rivolgono agli stessi target».
Chi lavora nella pubblicità è un inventore di sogni, uno spacciatore d’illusioni o un seduttore virtuale?
«Credo che la pubblicità sia uno specchio e che chi lavora nell’advertising segua le tendenze. Tuttavia, quando la gente vuole qualcosa di nuovo i pubblicitari devono capirlo al volo. Perciò alla fine sono soprattutto dei seduttori».
«Politica, religione, sesso: bisogna proprio parlarne?» si chiede Draper. La gente è interessata ad altro?
«Non penso ci sia nulla d’interessante in politica e religione. A ciò che resta aggiungerei il cibo».
Rispetto agli anni ’60 nella comunicazione è cambiato il ruolo delle tecnologie, ma al centro di Mad Men c’è una persona.
«Chiunque abbia dei bambini vede che le tecnologie sono molto naturali per loro. E se una volta una candela poteva spaventare i piccoli, oggi il computer non provoca alcun timore. Non temo che gli uomini diventino delle macchine. Ma credo che la tecnologia ci abbia reso soli e isolati».
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