Nell'Ottocento delle cosiddette «femmes fatales», lì dove eros faceva rima con thanatos e insomma non c'era amore senza maggior dolore, felicità senza ancor più tragedia, Cristina di Belgioioso ebbe un ruolo da protagonista. Théophile Gautier insinuò che l'arredo del suo salotto fosse opera di un'agenzia di pompe funebri e la battuta feroce che accompagnava l'apparizione della contessa milanese nei ricevimenti parigini dove il suo incarnato pallido faceva da contrasto al nero degli occhi e dei capelli, era: «Doveva essere proprio bella da viva». Alfred de Musset, lo scrittore dandy e dissipato che a venticinque anni aveva già scritto la propria biografia e l'aveva intitolata Confessioni di un figlio del secolo, stanco dei rifiuti di lei la immortalò in una poesia dal titolo Su una morta: «È morta e non ha vissuto. Faceva finta di vivere/ Dalla sua mano è caduto il libro/ In cui non ha letto nulla».
Anni prima, alla Scala, Cristina era apparsa in gramaglie nella solitudine del suo palco, nonostante il marito, Emilio Barbiano di Belgioioso Este, fosse un gaudente ancora in buona salute, anche se già sifilitico. Si erano sposati quando lei, nata Trivulzio, aveva 16 anni e lui 24, ma dopo appena quattro anni di matrimonio il rapporto era naufragato. Troppe le infedeltà maritali, con il surplus della malattia venerea trasmessa alla moglie, la quale di suo già soffriva di epilessia, nonché della proposta di un ménage à trois, la bellissima Margherita Ruga come appendice, appunto, della coppia.
Con quel suo presentarsi nel tempio milanese della lirica vestita a lutto Cristina aveva voluto simbolicamente dire che per quanto la riguardava la partita era chiusa, e poco importa sapere se quella sua apparizione scaligera fosse veramente avvenuta o se, come scrive ora Pier Luigi Vercesi in La donna che decise il suo destino (Neri Pozza, pagg. 288, euro 18), avesse più a che fare con la leggenda che l'accompagnò sin dall'inizio: «In realtà Cristina era allora isolata sul lago di Como, dove rimase fino alla sua partenza, il primo dicembre 1828, per Genova, senza più mettere piede a Milano e tanto meno in società». Il libro di Vercesi ha per sottotitolo Vita controcorrente di Cristina di Belgioioso e ha il pregio di sottrarre quest'ultima alla sua in fondo sterile fama di femme fatale, «cortigiana» quanto intellettuale, frigida quanto appassionata, intorno alla quale c'era un tourbillon di spasimanti e di devoti, da Listz a Heine, da Balzac a Bellini Era molto di più, Cristina, una delle figure femminili risorgimentali di statura europea, una che vagabondò per il Medio Oriente e lasciò bellissimi libri di viaggio, una che anticipò le riflessioni sulla emancipazione femminile, un personaggio in cui l'eccentricità rispetto alla norma si accompagnava a un'estrema lucidità rispetto al panorama politico del suo tempo e alla retorica che ne era parte integrante: «Non dobbiamo mai dimenticare l'ardua e doppia impresa del nostro secolo, consistere nel distruggere e fecondare nello stesso tempo».
Eccentricità rispetto alla norma, abbiamo appena detto, ma poiché stiamo parlando dell'Ottocento politico-ideologico italiano, bisogna essere un po' cauti al riguardo. Cristina appartiene alla generazione dei Garibaldi, dei Mazzini, dei Cavour, tutti più o meno suoi coetanei, tutta gente che ha intorno ai vent'anni quando fra Carboneria e Giovine Italia si fanno le prove generali di quello che un decennio dopo culminerà nel '48 della prima guerra d'Indipendenza italiana. È l'Italia «espressione geografica» cara a Metternich, è l'Italia «Paese dei morti» cara a Lamartine, ma è anche l'Italia dei cospiratori e delle spie, dei tiranni vestiti da granduchi, dei traditori e degli esuli, delle congiure sempre fallite, delle forche sempre erette, dei pugnali sempre sguainati...
È, come osserverà Stendhal (il quale non a caso vi ambienta, oltre a numerosi racconti, La Certosa di Parma), il Paese naturale dei romanzi, luogo romanzesco in sé, dove il romanzo lo si vive, e dunque non lo si scrive. La Certosa di Parma, al di là del suo valore letterario, è interessante perché, come scrive Vercesi, ci fu chi, in primis Balzac, «intravide nel personaggio della Sanseverina la principessa di Belgioioso. Entrambi, scrittore e soggetto, negarono senza convinzione». È però un dato di fatto che nell'Europa della Restaurazione solo l'Italia può fornire figure femminili simili, donne innamorate e insieme donne patriote, a loro agio nei salotti e capaci però di cospirare in prima persona, oggetto di ammirazione e/o di odio aristocratico, così come di passione plebea sotto forma di briganti risorgimentali e di soldati di ventura. Sarà uno di questi che, al tempo del suo esilio in Turchia, cercherà di ucciderla a coltellate: «Mi hai insultato dicendomi di uscire da casa tua. Muori perfida!».
In realtà, il modello della Sanseverina applicato alla Belgioioso peccava per difetto: la Sanseverina cospirava per amore, Cristina di Belgioioso per passione politica. Nel suo libro Vercesi mette insieme le troppe vite di chi nel 1848 era entrata a Milano alla testa di un battaglione di sua creazione e all'assedio di Roma del 1849 aveva arruolato le prostitute in funzione di infermiere, figura quest'ultima che prima di lei non esisteva e che dopo di lei Florence Nightingale farà propria. Dedita all'oppio, fra un ballo, un concerto, un flirt, un complotto e un esilio Cristina attraverserà anche a cavallo i territori più selvaggi del Medio Oriente, portando con sé la piccola Maria, la figlia avuta fuori del matrimonio, molto probabilmente il frutto della sua lunga liaison con François-Auguste Mignet, figura di spicco della Francia liberale e orleanista.
È curioso come personaggi del genere non abbiano mai trovato, dal punto di vista storiografico, il loro ubi consistam, quasi che gli studiosi del Risorgimento, a cominciare da Federico Chabod, troppo impegnati a tracciare coordinate ideali, provassero fastidio per figure non in sintonia con la loro ricostruzione. Cristina, e questo Vercesi lo mette bene in evidenza, vide prima e meglio degli altri l'inattualità degli ideali mazziniani e la necessità di ripiegare su posizioni più moderate, ma non commise mai l'errore di confondere i fallimenti insurrezionali sul campo con la straordinaria capacità di mobilitazione ideale propria di Mazzini, senza la quale nessuna azione politica avrebbe avuto successo. Allo stesso modo, fu tra i pochissimi, parlandone al maschile, a cercare di andare verso il popolo, interessandosene dal vivo e non sulla carta. Inaugurò asili e scuole, riformò l'idea di proprietà terriera...
Tanto fu lucida sul prima quanto non si fece illusioni sul dopo: le sue Osservazioni sullo stato attuale dell'Italia e sul suo avvenire, pubblicate nel 1868, mostrano come avesse chiara sia la falsa modernizzazione lombardo-piemontese, sia il ritardo malavitoso siciliano, sia il perdurare della cattiva amministrazione negli ex domini della Chiesa o la svendita turistica con cui la Toscana rinnegava sé stessa.Morì sola, come in fondo da sola era sempre vissuta, barca controcorrente in un Risorgimento italiano che, come osserva Vercesi, fu «un groviglio di vipere e di eroi, di aspirazioni liberali, ma solo per gli uomini».
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