Tutto bene, tutto giusto ma scusate prima non era così? Ora si parla tanto (spesso a sproposito) di «musica inclusiva», rispettosa della libertà di genere e capace di fotografare l'immenso set delle sensibilità umane. I look dei Maneskin sono virali e giustamente applauditi come rottura del manierismo stereotipato. La camicetta trasparente di Blanco nella prima serata di Sanremo è stata celebrata come la disgregazione delle regole di eleganza dello spettacolo maschilista. Ma se si conosce la storia della musica leggera, specialmente del rock e di tutte le sue declinazioni, persino di quelle estreme, non c'è nessuna novità così sensazionale. A parte le eccezioni, che come sempre confermano la regola, la musica popolare non ha mai avuto barriere di genere, anzi: le ha frantumate.
Ora il pubblico se ne accorge e le celebra. Ma prima ne era quasi indifferente oppure riduceva tutto a folclore e a protesta becera. E così tanta parte della critica musicale di allora si guardava bene dall'esaltare la coerente celebrazione delle differenze, tutt'altro. Ovvio ci sono state cadute come quei purtroppo celebri versi di One in a million dei Guns N'Roses («Polizia e negri lontano da me, immigrati e checche non hanno senso per me») che però sono stati rimossi nel 2018. Per il resto il rock è sempre stato (anche) una celebrazione della femminilità mascolina o della virilità femminile. L'iconico abito bianco di Michael Fish che indossava Mick Jagger dei Rolling Stones a Hyde Park nel 1969? Oppure bisogna ricordare gli uno, nessuno, centomila David Bowie che hanno attraversato il rock dell'ultimo mezzo secolo? Pochi altri come lui hanno destrutturato l'idea stessa di identità sessuale precostituita.
E lo hanno fatto non quando si guadagnava qualche milionata di like e il consenso dell'universo mondo, ma quando le pernacchie dei benpensanti erano dietro l'angolo e facevano molto male sia come vendite che come popolarità. Nel 1984, quando uscì il video di I want to break free dei Queen con l'immenso Freddie Mercury in reggicalze mentre passa l'aspirapolvere in casa con gli altri del gruppo in abiti femminili, gli Stati Uniti lo censurarono subito.
Mai si erano viste rockstar vestite da casalinghe, tanto più che le immagini sarebbero state diffuse da Mtv e quegli erano gli anni del Pmrc, il Parents Music Resource Center di Tipper Gore, moglie del democratico Al Gore futuro vicepresidente di Bill Clinton, che aveva come obiettivo quello di «valutare sotto il profilo morale ed educativo il contenuto dei prodotti discografici, in particolare per quanto riguardava i riferimenti sessuali più o meno espliciti che essi veicolavano». Una roba del genere oggi scatenerebbe il fuoco incrociato di stampa e social, tanto più che nel mirino allora finirono pure supermegastar come Prince e Madonna.
Però in quel tempo, complice anche la chiara collocazione politica dell'iniziativa, il Pmrc sembrò soltanto un tentativo di moralizzare una gioventù corrotta dalle droghe e non il desiderio chiaro di dettare un orientamento (anche) sessuale che fosse conforme alle regole.
Insomma, il pop e il rock sono arrivati persino prima del pubblico a scavalcare le barriere e lo hanno fatto senza l'euforia collettiva che in questo momento sembra premiare qualsiasi piccolo segnale anche al di là dell'effettivo rilievo sociale. Come spesso accade, la musica intercetta il cambiamento prima che lo facciano gli influencer e fotografa le urgenze del pubblico con l'implacabile naturalezza che discende dalle note, dalle canzoni, dalla forza del consenso durante i concerti.
Dopo le folate di ambiguità irresistibile lanciate da David Bowie oppure da Marc Bolan dei sottovalutatissimi T-Rex negli anni Settanta, a scardinare le barriere arrivò pure il cosiddetto «hair metal», ovviamente considerato dalla critica e da parte del pubblico come un bubbone folcloristico. Lanciato dalla metà degli anni Ottanta da gruppi come Motley Crue o Poison, era l'annullamento definitivo delle barriere sessuali: musicisti con pizzi e calze a rete che suonavano musica tradizionalmente considerata maschilista, quindi con chitarroni e batterie impertinenti.
Persino maestri dell'hard rock come gli Aerosmith di Steven Tyler e Joe Perry contribuirono ad abbattere le barriere (questa volta stilistiche) suonando il loro classico Walk this way con i Run Dmc, il primo grande esempio di crossover stilistico, razziale e generazionale della storia della musica. In poche parole, era il tempo dell'«inclusività», termine non ancora usato e strausato perché si preferiva «crossover». Ma è perfetto per chiarire il fenomeno. Forse per questo il Pmrc della democraticissima Tipper Gore impazzì. Però il pubblico diventò sempre più grande. E la musica importò definitivamente quel concetto che oggi sembra così innovativo, ossia l'annullamento delle barriere di genere. In realtà è cambiata soprattutto la percezione dei mass media e, di conseguenza, quella del pubblico.
Nell'epoca social che azzera il passato, la forza inclusiva di artisti come Maneskin, Blanco, Mahmood o, per fare qualche nome fuori dai nostri confini, di The Weekend o Bruno Mars sembra rivoluzionaria. Ma è soltanto l'evoluzione di una tensione artistica che arriva da lontano e che oggi ha volti nuovi ma la stessa vocazione liberale che aveva mezzo secolo fa.
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