Per chi lo conosce, Alain de Benoist è una persona piacevolissima, spiritoso, gourmand, grande viaggiatore, per nulla estraneo a quelli che sono i piccoli-grandi piaceri della vita. E tuttavia si avverte in lui un qualcosa che ha a che fare con l'ascetismo di un monaco guerriero, un estremo rispetto per un codice comportamentale fatto di alcuni elementi inseparabili. Si tratta di elementi che definirei premoderni e che hanno a che fare con l'onore, l'ethos e tutto ciò che fa loro corollario: il rispetto della parola data, il senso dell'amicizia, il disprezzo per la menzogna, l'assenza di calcolo e quindi la gratuità delle azioni, il service inutile di cui parlava Henry de Montherlant, autore a de Benoist caro.
Ho scritto premoderni e non antimoderni, e l'ho scritto non a caso. Non c'è nulla in lui della retorica reazionaria che si rifugia in un'idilliaca età dell'oro mai esistita. C'è la consapevolezza, nonché l'utilizzo, dei vantaggi e dei progressi tipici della modernità, uniti però al prendere atto di quanto di negativo hanno potuto comportare e della necessità di dotarsi di tutti gli strumenti intellettuali in grado di farvi fronte. In un mondo in cui nulla ha più valore, ma tutto ha un prezzo, de Benoist si muove in un'ottica di estraneità, innamorato del reale e tuttavia portato a detestare la realtà circostante, un essere mosso da emozioni senza però che sia l'irrazionalità a indicare la rotta. Così come nel Settecento gli enciclopedisti prepararono la strada che rendeva impraticabile quella dell'Ancien Régime e apriva il cammino all'Illuminismo, de Benoist è un enciclopedista che fra il XX e il XXI secolo lavora per un nuovo momento storico, un nuovo Nomos della Terra. «L'avvenire non è mai chiuso» dice a un certo punto del suo nuovo libro (Memoria viva. Un cammino intellettuale, Bietti), e la trovo una frase bellissima.
Il disagio nella modernità e della modernità è un qualcosa che accomuna tutto un mondo che sbrigativamente, ma non erroneamente, si può definire di destra, al suo meglio come al suo peggio. L'enciclopedismo, la passione e l'attenzione per il nuovo, l'interessarsi ai mutamenti, lo studio di ciò che ci circonda, il provare a darsi delle risposte ha a che fare con tutto un mondo che altrettanto sbrigativamente, ma non erroneamente, si può definire di sinistra, anche qui al suo meglio come al suo peggio. Incarnandoli entrambi e simultaneamente, de Benoist opera una sintesi che lo situa altrove rispetto al pensiero contemporaneo e ne certifica l'originalità.
Per comprenderla meglio, conviene partire da un'osservazione, riportata nel libro, di Michel Marmin, grande amico e grande sodale dell'avventura intellettuale di Alain de Benoist: «È nella letteratura, molto più che in opere teoriche, che gli uomini di destra hanno espresso meglio la loro concezione del mondo». È una frase felicemente ambigua: in fondo, per restare al solo Novecento, il maggior filosofo italiano si chiama Gentile, il maggior filosofo tedesco ha nome Heidegger, il maggior studioso di diritto è Carl Schmitt... Ciò che però più sottilmente quella frase sta a significare è che questi giganteschi pensatori hanno poco o punto commercio con la vita, ne conoscono l'empireo, che però la sovrasta, non ne frequentano le taverne, che invece la punteggiano, tanto meno i bassifondi, che pure ci sono. Non gli chiederemo mai un consiglio artistico, una divagazione sentimentale, un'indicazione letteraria, l'emozione trasmessaci da un film, una poesia, un volto femminile, un'alba o un tramonto... Ci rendono sì consapevoli del sentimento tragico della vita, ma non ci aiutano a conviverci, ad assaporare fino a dove e quando è possibile la bellezza indicibile del vivere. Per certi versi, la loro è una visione del mondo che non tiene conto degli abitanti proprio di quel mondo, umani e troppo umani, imperfetti e deboli, contraddittori... È per questo che si trova rifugio in una pagina di Chateaubriand o di Montherlant, per tornare alla Francia di de Benoist, di Leopardi o di Svevo, per restare nell'Italia di chi scrive: sono come noi e insieme migliori di noi, esprimono ciò che sentiamo, ma non sappiamo dire, ci aiutano a essere quello che vorremmo che fossimo, ci consolano, persino, ovvero ci fortificano.
Sotto questo profilo, Mémoire vive (Memoria viva) non finisce di sorprendere: c'è sì la filosofia, ma c'è anche la vita, ci sono i film e ci sono i quadri, i romanzi e le poesie, la natura e gli stupori, gli incanti infantili e le passioni, le timidezze e gli orgogli. Pur senza concedere nulla a un autobiografismo compiaciuto, de Benoist racconta una vita dove la curiosità, le esperienze, gli incontri si muovono di pari passo con la maturazione di un pensiero. Naturalmente, de Benoist è un intellettuale impegnato, va da sé, ma non partigiano. A un certo punto osserva divertito come al tempo delle sue prime apparizioni televisive il settimanale satirico Charlie Hebdo lo avesse definito, in contrasto con un certo tremendismo tipico di un'intellettualità di destra alla Jean Cau, indistinguibile rispetto al prototipo dell'intellettuale di sinistra: lo stesso portamento, gli stessi occhiali, il medesimo abbigliamento... Ciò che fa la differenza, e che egli stesso annota, ma quasi di sfuggita, riguarda il senso dell'amicizia, e vale la pena di fermarsi un momento su questo punto.
Anche qui, non vorrei essere frainteso, non vorrei cioè che si pensasse che un intellettuale di sinistra non ha amici! Ce li ha, naturalmente, ma raramente resistono alle divergenze ideologiche, peggio, alle abiure, a differenza di quanto avviene nel campo opposto, dove resta intatta, a volte con esiti disastrosi, l'idea di fare comunque parte di un'identica comunità, nonostante tutto ciò che possa nel tempo essersi verificato. «È uno di noi» ci diciamo a mo' di giustificazione, una sorta di culto, ha scritto non ricordo più chi, che rasenta la superstizione, laddove sul fronte opposto prevale la pura e semplice cancellazione, se non la dannazione.
Si possono certo avanzare spiegazioni di carattere sociologico a quanto appena detto, ma risulterebbero parziali e non andrebbero mai al cuore del problema, che ha a che fare nel primo caso con la sovrastruttura, la condivisione ideologica che fa da garante e giustifica l'amicalità, nel secondo con l'etica e l'estetica dell'amicizia, che di quella condivisione-giustificazione sono la dinamo e insieme la necessità. Questo spiega altresì perché ci sia una visione cavalleresca delle idee a destra «lo stimo perché è il mio avversario», per dirla ancora con Montherlant raramente rintracciabile a sinistra...
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