Una delle chiavi di lettura di Gli Iperborei, il romanzo d'esordio di Pietro Castellitto (Bompiani, pagg. 213, euro 18), la si può trovare nel rimpianto del protagonista, Stefano Bianchieri, detto Poldo, per i roaring Twenties, i ruggenti anni Venti di Francis Scott Fitzgerald, «quando la ricchezza e il lusso e lo sfarzo e tutto quello che egli ama erano a portata di genio». Alle soglie dei trent'anni, Poldo e i suoi amici, un'aspirante attrice senza talento, un neodeputato subito voltagabbana, un campione sportivo subito dopato, un fuori di testa per amore, una fuori di testa per i loschi affari del padre, tutti belli, tutti figli di ricchi, tutti viziati e tutti quasi sempre ubriachi e/o fatti, sentono che l'unica cosa che loro manca è proprio quella che non si può comprare. Intanto la maturità bussa alle porte e l'età adulta porta con sé la fine delle illusioni, la consapevolezza che l'Eden dell'infanzia non basterà a riempire il vuoto che si prospetta dinnanzi, la stessa vita di quei genitori di cui hanno spesso sognato l'annientamento, l'odio che subentra quando l'amore si è trasformato in cenere perché la realtà ha vinto sul sogno.
Pietro Castellitto è un figlio d'arte. Di suo ha un film come regista all'attivo, un paio di prove attoriali di successo, molti premi per l'uno e per gli altri e insomma è uno che ha già un brillante avvenire dietro le spalle... Forse è anche per questo che il Poldo Bianchieri di Gli Iperborei, il più talentuoso in fondo, alla fine sceglie di morire, l'unico modo per conservare e insieme conoscere l'infanzia.
Il teatro degli Iperborei è Roma, il centro naturalmente e la Roma dei Parioli e di quella parte della Nomentana che da villa Paganini degrada verso il quartiere Trieste. Sono nomi che per me funzionano come le madeleines proustiane, perché mi rimandano a quando avevo la stessa età dei «giovani leoni» del libro e quelli erano i miei luoghi, sensazione acuita da un retrogusto di fascisteria che fu tipico dei miei anni Settanta e che quarant'anni dopo si ripresenta identico e però come svuotato di segno. Negli Iperborei ci si dà scherzosamente del «camerata», vengono incise croci celtiche sugli alberi, si canta e si parafrasa «ragazzi di Buda» e insomma sembra che il tempo non sia mai passato e non sia cambiato niente, mentre invece la storia ha agito come un rullo compressore ed è cambiato tutto, con il risultato di rendere ancora più incongruo ciò che già quarant'anni fa era inattuale.
Va detto però che l'inattualità è uno dei temi cari a Castellitto, lettore appassionato di Nietzsche, come lo stesso titolo del romanzo sta a indicare. È l'inattualità di chi si scopre e/o si sente diverso proprio quando tutto, la famiglia, l'educazione, lo spirito del Tempo, congiurano per farti sentire eguale: «Frequentai il Castello negli anni più ruggenti del suo splendore. La pianta carnivora della globalizzazione cominciava ad attecchire. Il figlio poliglotta, il cittadino del mondo. Attivista o ambasciatore, avvocato umanitario o finanziere, quale che fosse il destino, l'idea allettò i più disperati cuori di madre: le temerarie, le ambiziose, le annoiate. Grazie al sonno italiano nasceva il sogno europeo».
È un'inattualità che paradossalmente concerne anche la lingua di Gli Iperborei, politicamente scorretta (ci sono «i negri», ci sono «i froci») e tuttavia non artificiale rispetto alla polizia e alla pulizia del Pensiero che la vorrebbe ripulita in nome di un umanesimo irenico quanto censorio. Non sorprende che fra i protagonisti femminili del libro ci sia chi sogna «una guerra. Nel bene e nel male, è tutto così prevedibile. E sono stanca di vedere le solite cose. Vacanze, foto, feste. Soltanto una guerra ci può salvare. Finalmente il nulla. Finalmente la vita. E nessuno, neanche noi, a sapere come sarà».
La guerra è un tema delicato, su cui la vecchia Europa, quella democratico-liberale, in pace oramai da settant'anni, preferisce sorvolare, illudendosi che sia un retaggio del passato oppure un ritardo periferico di civiltà, si tratti del Medio Oriente, dell'Africa, dell'Asia... Quando sul finire del secolo scorso se l'è ritrovata nel suo versante balcanico ne ha delegato la risoluzione, via Nato, agli Stati Uniti, pensando così di risparmiarsi i corpi e l'anima... È un tema delicato così come lo è quello della morte, altro topos del romanzo di Castellitto, «dove si ama proprio perché si muore», tanto più delicato in una società che ha fatto della morte un tabù e della salvaguardia della salute un dogma, che non sorprenderebbe se un domani, sempre nel nome della correttezza ideologico-semantica, si cominciasse a definire i morti come «diversamente vivi».
Va da sé che i giovani iperborei di Castellitto hanno di fronte l'eterno problema della giovinezza, ovvero della bellezza della giovinezza. Fitzgerald che, lo abbiamo visto, è uno scrittore caro a Castellitto, lo ha raccontato benissimo, il privilegio e insieme la condanna che di quella fa parte, la seducente grazia del corpo e della mente prima che la vita ispessisca il primo e indurisca la seconda. Al confronto di ciò che sono stati per un attimo che hanno creduto eterno, «tutto dopo sembra una parabola discendente, ragazzi cresciuti come prìncipi senza nessuna responsabilità dei prìncipi»...
Costruito su più piani, un io narrante che racconta il presente, pagine di un suo romanzo in cui viene raccontato il passato, la storia di Gli Iperborei è per certi versi una non storia. Scorrono delle immagini, si susseguono delle situazioni, si moltiplicano i rimandi, ma non sempre il filo conduttore è limpido. Castellitto ha anche una vocazione all'aforisma che qua e là gli prende la mano: «Siamo in verità l'equilibrio, il freno e il grande muro»; «il fumo della vita non riesce a scappare attraverso le pieghe del pensiero»; «il cielo che per filo e per segno ricalca la tela dei miei fosfeni»... Allo stesso modo, l'elenco insistito di marchi, firme, etichette suona, almeno alle mie orecchie, un minimalismo dell'oggettistica compiaciuto e però inutile.
È naturalmente difficile dire quanto la gioventù descritta nel romanzo corrisponda a una realtà, sia pure parziale, anche se molti fatti di cronaca, brutali o semplicemente stupidi, inducono a credere che non si sia molto lontani dal vero. E tuttavia resiste nel libro una delicatezza non comune, un senso di quiete e di speranza che lo colora e in un certo senso lo riscatta. Castellitto lo affida a una figura marginale, sia rispetto all'estrazione sociale dei suoi personaggi, sia rispetto alla pura e semplice anagrafe.
Proprietario di un bar dove Stefano detto Poldo «ha imparato il gusto, la seduzione, l'ironia, il senso del tempo e la dignità», nella sua semplicità Stefano (non a caso anche lui si chiama così) «offre la più alta immagine di resistenza ghibellina che Roma possa ancora dare, l'attesa di un uomo generoso e pieno di estro in un mondo che impone la sua morale ipocrita, come se le idee possano esistere senza la vita. Come se la bontà, il sacrificio e le paste di riso potessero nascere al di là di una tempra eroica che rincorre il grande gesto».
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