Droga, vip e un padre mostro, Le Carré è la talpa della sua vita

Nell'autobiografia «Tiro al piccione» il re della spy story confessa tutto, dall'odio per le interviste agli istinti omicidi

Droga, vip e un padre mostro, Le Carré è la talpa della sua vita

Ci sono delle volte, di notte, in cui John le Carré ha un desiderio: non aver mai rilasciato nessuna intervista. Perché, scrive, «le interviste sono un processo incompatibile con la conoscenza di sé». Secondo il creatore di Smiley, nelle interviste ci si inventa sempre un po'. E fin qui niente di male. Non fosse che poi si finisce per credere a quel che si è inventato. E se succede così con le interviste verrebbe da dire, figuriamoci con le autobiografie. Perciò non ci è dato sapere quanto e come si sia inventato Le Carré in uno dei libri più attesi dell'anno, appena uscito in Italia, ovvero la storia della sua vita: Tiro al piccione (Mondadori, pagg. 320, euro 20, trad. di Mariagiulia Castagnone).

Possiamo immaginare che David Cornwell, questo il vero nome dell'uomo che ha cambiato per sempre la spy story, alle parti più «romanzesche» della sua autobiografia - quelle dedicate ai giramondo aristocratici, alle spie e ai capi di Stato (la Thatcher, Murdoch, Edward Snowden tra gli altri) su cui si è ritrovato a prendere appunti ispiratori per i suoi romanzi - abbia aggiunto qualche dettaglio «poetico». Come quando fuma oppio per la prima volta a Vientiane, la capitale del Laos, dove alla fine degli anni '70 non c'è altro da fare che «fumare oppio, scopare e ascoltare i piloti messicani dell'Air America che si vantano del numero di persone che hanno ammazzato mentre si fanno fare un pompino al White Rose».

O come quando danza la «dabka» con Yasser Arafat: «Ha afferrato un'estremità della kefiah e la sta facendo ruotare come Alec Guinness nell'Oliver Twist cinematografico. Ora mi fa segno di afferrarlo alla vita... Finché tutti formano un trenino guidato dal nostro leader». Ma di certo è in questo libro che ha deciso di tirare le conclusioni più prosaiche: «Ho coltivato l'idea che l'oppio sia una di quelle droghe proibite dalla pessima reputazione che, se fumata da persone di buon senso in quantità modesta, non può fare altro che bene». Oppure: «Gli uomini e le donne di potere mi attiravano semplicemente perché esistevano. Solo in seguito, nella mia stanza d'albergo, tiravo fuori il mio taccuino consunto e cercavo di dare un senso a quello che avevo visto e sentito».

Possiamo invece immaginare che quando descrive i luoghi per cui prova un affetto sconfinato sia sincero fino all'osso. Le sue scrivanie, per dirne una. Come quella che si trova nel seminterrato del piccolo chalet che ha costruito in Svizzera con i profitti de La spia che venne dal freddo. Lo chalet, in cui nel 1967 si rinchiude per quattro settimane insieme a Sidney Pollack per scrivere la sceneggiatura di Una piccola città in Germania, è proprio sulle piste da sci: Pollack vuole imparare a sciare e Le Carré gli trova come maestro d'eccezione la leggendaria guida alpina Martin Epp. Da quel ritiro non uscì nessun film, ma qualche tempo dopo Pollack prestò lo chalet a Robert Redford per le location de Gli spericolati, conquistando a Le Carré il rispetto dei valligiani svizzeri per il fatto di essere suo amico. Lo chalet ha un profondo significato anche per la sua collocazione: si trova nell'Oberland, il luogo in cui l'autore di La talpa ha sciato per quasi settanta dei suoi 85 inverni. Si trova a un'ora e mezzo da Berna, la città in cui a 16 anni Le Carré è arrivato dopo la fuga dalla scuola privata inglese. La città in cui ha fatto l'Università prima di Oxford. La città in cui ha mosso i primi passi per conto dei Servizi segreti inglesi. Permeato di cultura tedesca fin dall'adolescenza, in un momento della storia umana in cui la cultura tedesca è un mostro da rigettare, abituato a riconoscere le spie tedesche tra i suoi compagni di classe, Le Carré sceglie Berna per fuggire da un altro mostro: suo padre.

Perché è in uno dei capitoli più delicati del libro, «Il figlio del padre dell'autore», che siamo certi di come, mentre descrive la persona per cui prova un rancore sconfinato, Le Carré sia costretto a dire la verità: «Ronnie, truffatore, ricco di inventiva, sporadicamente carcerato, mio padre». Non a caso il capitolo è magistralmente messo alla fine, per non gettare la sua lunga ombra scura sugli avvincenti aneddoti dietrologici delle pagine precedenti. «Per me la scrittura è un fatto privato», aveva scritto nelle prime righe. Ed è per misurarsi con la figura di Ronnie che John scrive e vive: «Abbassa lo sguardo, gentile lettore, su questo povero ragazzo traumatizzato, oppresso dal suo tirannico genitore. Fu solo dopo la sua morte che feci quello che avrei dovuto fare fin dall'inizio, rendendo i peccati del figlio molto più riprovevoli di quelli del padre». Alla famiglia, Ronnie riserva benzina a credito al garage vicino a casa, mogli alternative, affari con loschi immobiliaristi, fino ai traffici con il crimine organizzato. Ricercato per frode nello stesso periodo in cui si mostra in cilindro grigio nel recinto di Ascot. Costretto a chiedere una tregua alle guardie venute per arrestarlo per portare a termine il ricevimento del suo secondo matrimonio.

Mani curate, da giocatore, che usava per picchiare con violenza sia Olive, madre di John, che la sua seconda moglie, ma John solo qualche volta («Sarei stato capace di colpire la sua testa ipotecata? Avrei davvero potuto ucciderlo, finendo in prigione com'era successo a lui?»), affabulatore e visionario, imprevedibile, senza vergogna, Ronnie muore

all'improvviso a 69 anni, lasciando Le Carré in balia di fantasmi da neutralizzare a suon di romanzi: «Graham Greene dice che l'infanzia rappresenta il saldo a credito di uno scrittore. Da questo punto di vista, sono nato milionario».

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