Due Kissinger in uno: realista in politica idealista in filosofia

Dai profondi studi accademici di impronta kantiana al sodalizio con Nixon. Nel nome della ragion di Stato

Due Kissinger in uno: realista in politica idealista in filosofia

È rimasto celebre il ritratto all'acido prussico che Oriana Fallaci fece di Henry Kissinger in una conversazione poi confluita, come capitolo iniziale, nel volume Intervista con la storia. Alla giornalista italiana, che a quell'epoca non lo amava affatto, Kissinger apparve come un «uomo troppo famoso, troppo importante, troppo fortunato». Era un «cinquantenne con gli occhiali a stanghetta, dinanzi al quale James Bond diventava un'invenzione priva di pepe» perché «lui non sparava, non faceva a pugni, non saltava da automobili in corsa come James Bond, però consigliava le guerre, finiva le guerre, pretendeva di cambiare il nostro destino e magari lo cambiava». Ai suoi occhi Kissinger il cui legame con il presidente degli Stati Uniti era già da tempo così stretto da far dire a William Safire, uno dei più importanti funzionari della Casa Bianca, che egli era «una estensione del cervello di Richard Nixon» appariva come il tipico eroe di una società in cui tutto era possibile. Era possibile, perfino, a dire della Fallaci, che «un timido professore di Harvard, uso a scrivere illeggibili libri di storia e saggi sul controllo dell'energia atomica» potesse diventare «una specie di divo che governa insieme al presidente, una specie di playboy che assesta i rapporti fra le grandi potenze e interrompe le guerre, un enigma che tentiamo di decifrare». L'intervista della Fallaci che Kissinger, in seguito, avrebbe definito «la conversazione più disastrosa mai avuta con qualsiasi rappresentante della stampa» alla fin fine forniva un ritratto fuorviante del diplomatico statunitense in quanto condizionata da una immagine semplificatrice, e largamente corrente, che lo presentava come un politico pragmatico e cinico, quasi un Superman senza la carica idealistica del supereroe. In realtà il «realismo» di Kissinger, quello che egli manifestò passando dalle aule universitarie all'arengo della politica, era un'altra faccia, quella più impegnata, del suo «idealismo». Lo dimostra molto bene il primo volume della colossale e suggestiva biografia che lo storico conservatore inglese Niall Ferguson gli ha dedicato: un volume intitolato, proprio, Kissinger. The Idealist, 1923-1968 (Penguin Books, New York, pagg. 1008, dollari 39,95), dove il termine «idealista» è utilizzato più nell'accezione filosofica che in quella politica: e ben lo dimostra la definizione che Ferguson dà, in conclusione, di Kissinger come «un idealista kantiano» e non già «un idealista wilsoniano».L'approccio di Ferguson, attento sia alle origini europee sia in particolare alla formazione culturale dello statista e diplomatico americano, è in grado di spiegare non soltanto la nascita di un pensiero conservatore forte come quello di Kissinger, ma anche la sua declinazione di fronte alle sfide di un mondo diventato, dopo la seconda guerra mondiale, sempre meno eurocentrico e più globale. Mi torna alla mente, leggendo Ferguson, un'acuta osservazione di un raffinato diplomatico e storico italiano, Ludovico Incisa di Camerana, che fa capire sia lo spessore culturale di Kissinger, sia il suo conservatorismo. Secondo lui Kissinger si identifica con «il suo pensiero» al punto che «la sua biografia è un dettaglio»: è un uomo che «non appartiene alla razza degli intellettuali che vogliono cambiare il mondo, ma alla razza degli intellettuali che vogliono capirlo», un politico che «non cerca i mondi ideali ma i mondi possibili». Nato nel 1923 da una famiglia ebraica tedesca emigrata nel 1938 a New York, in una città centro riconosciuto dell'ebraismo internazionale, Kissinger si integrò profondamente nella vita, nella cultura, nella mentalità americane pur conservando quelle «stimmate» di una sensibilità intellettuale tipicamente europea forgiata alla scuola dello storicismo idealistico. Nella metropoli americana Kissinger, appassionato di filosofia e di storia, compì gli studi al City College segnalandosi come uno dei migliori allievi. Dopo la guerra fu ammesso ad Harvard dove si laureò nel 1950 con una originale tesi intitolata Il significato della storia e centrata su tre pensatori: Oswald Spengler, Arnold Toynbee e Immanuel Kant. L'interesse di Kissinger per Spengler e per altri autori che condividevano una visione conflittuale e crepuscolare della storia sarebbe durato a lungo tant'è che, in seguito, consigliò a Richard Nixon la lettura di Il tramonto dell'Occidente. Non a caso uno studioso di politica come Stanley Hoffmann avrebbe potuto scrivere che Kissinger camminava «con il fantasma di Spengler sempre al fianco».Quando nel 1952 William Yandell. Elliott, un illustre studioso di teoria della politica che era stato il suo tutor, fondò la rivista Confluence come punto di raccordo fra gli intellettuali anticomunisti e di matrice liberal-democratica, Kissinger fu chiamato a occuparsene come editor. Fu una esperienza per lui certamente importante e produttiva in termini sia di relazioni, sia di definizione dei suoi interessi. Alla passione per la filosofia e la teoria della storia, unì l'interesse per la politica internazionale e per il ruolo della diplomazia. La tesi di dottorato sul Congresso di Vienna, discussa nel 1954, pubblicata tre anni dopo col titolo A World Restored e il suo primo libro Nuclear Weapons and Foreign Policy del 1957 ne sono una dimostrazione. In particolare la tesi dottorale, in Italia tradotta solo nel 1977 col titolo Diplomazia della Restaurazione, non è tanto la rivisitazione di un evento che gettò le basi del sistema politico europeo all'indomani dell'avventura napoleonica, quanto l'elaborazione di una vera e propria teoria conservatrice della politica desunta dalle lezioni della storia. Secondo Kissinger, a Vienna furono gettate le fondamenta di un «ordine internazionale legittimo» destinato a durare nel tempo e fondato sulla volontaria accettazione dell'autorità come risultato dell'attività diplomatica. In questa visione, conservatrice e realistica al tempo stesso, la stabilità internazionale non è l'esito di una ricerca affannosa della pace, quale che sia, ma il punto di arrivo della costruzione del consenso attraverso la diplomazia. In tal senso il Congresso di Vienna è emblematico: in quella occasione le schermaglie diplomatiche portarono, come sottolinea Fergusson, a una «possibile fattibilità» piuttosto che a una «pace perpetua».Accanto agli impegni accademici e di studioso, Kissinger cominciò presto a svolgere attività di consulenza per organismi governativi e a stilare papers dedicati a temi di politica internazionale e di strategia militare. L'incontro con il miliardario repubblicano Nelson Rockfeller nel 1959 segnò una svolta nella sua vita e lo portò a stretto contatto con le strutture e gli uomini del potere politico. Cominciò infatti a collaborare con la presidenza Eisenhower e, successivamente, con quelle Kennedy e Johnson, prima di stabilire con Richard Nixon quel rapporto, complesso ma quasi simbiotico, che Fergusson analizzerà nel prossimo volume della sua biografia ma che, in ogni caso, ha lasciato il segno nella storia mondiale.

Pur essendo una biografia di taglio tradizionale, il volume di Fergusson, grande studioso di storia internazionale, è anche un'opera che ridiscute criticamente i momenti e le scelte più salienti della politica estera americana nell'epoca della Cold War mettendo in luce anche i non pochi scontri fra l'astrattezza teorica, spesso venata di utopismo, degli studiosi di strategia cresciuti all'ombra dell'accademia e il realismo, conservatore e pragmatico, dell'«idealista» Kissinger, attento alle lezioni della storia e alle nuove sfide dell'era nucleare.

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