"Dunkerque è un mito: si capisce perché incontrando i veterani"

Lo storico consulente del film "Dunkirk": "La lotta per la sopravvivenza li ha resi eroi"

"Dunkerque è un mito: si capisce perché incontrando i veterani"

Venti maggio 1940: la tragedia di Dunkerque è iniziata, anche se nessuno lo sa. Il battaglione di punta della seconda Panzer-Division raggiunge la costa della Manica. La straordinaria avanzata del «cuneo corazzato» tedesco è completa. Oltre un milione di soldati francesi, britannici e belgi sono accerchiati e con le spalle al mare. Inizia così l'epopea di Dunkerque. Questo porto sull'oceano resta la sola speranza di fuga. Dal 26 maggio al 3 giugno si combatte. Ogni ora di resistenza significa riuscire a portare oltre Manica più soldati. E per trasportarli viene utilizzato di tutto: navi militari, pescherecci, barche da diporto. Da quella che poteva essere una mattanza riescono a salvarsi 338mila uomini. Non stupisce che questa sconfitta si sia trasformata in un mito e che, ora, il mito sia diventato un film: Dunkirk. Ne abbiamo parlato con lo scrittore Joshua Levine, consulente della pellicola e autore del saggio Dunkirk: La storia vera che ha ispirato il film, pubblicato in Italia da HarperCollins e che uscirà il 24 agosto, pochi giorni prima della pellicola.

In che cosa Dunkerque è diversa dalle altre battaglie?

«Dunkerque è qualcosa di insolito. È celebrata, eppure è una sconfitta. L'unico aspetto di successo dell'operazione è stato il salvataggio dei soldati intrappolati. Sono stati riportati indietro, in Inghilterra».

Nel libro scrive: Dunkirk «non è un film di guerra»...

«Nel film il pubblico vede a malapena i tedeschi. Il nemico è senza volto. Si trasforma nella paura personale più grande, per ciascun soldato e per lo spettatore. È più un film di sopravvivenza, più un thriller psicologico, che una pellicola di guerra».

Che cosa rappresenta Dunkerque oggi?

«Per me la storia riguarda le persone. È lo studio del nostro comportamento, del perché facciamo le cose. Dunkerque non è stata solo la vicenda di soldati che si ritiravano e delle navi che venivano mandate a salvarli. C'erano anche gli sfollati, persone in fuga, non per colpa loro. Ci sono paralleli con oggi».

Ha visitato Dunkerque?

«Mi ha molto colpito. La produzione l'ha ricreata in modo che sembrasse come era nel maggio e giugno del '40. Ma ho imparato molto dal paesaggio».

Che cosa ha imparato?

«Avevo una relazione di un ufficiale navale che ricordava che gli uomini incaricati dell'evacuazione avevano sperimentato grandi difficoltà a rimanere in contatto. La situazione era migliorata brevemente, scriveva, quando una trasmittente Marconi fu spedita ai quartier generali navali a Dunkerque; ma si era rotta dopo poche ore, per via della sabbia nel generatore. Quando l'ho letto mi sono chiesto: come era finita la sabbia in un equipaggiamento così vitale? Non era difficile immaginare qualche soldato imbranato...»

E poi?

«Poi, quando eravamo sul set a Dunkerque, tutti abbiamo provato l'esperienza di queste tempeste di sabbia pazzesche. Il vento si alza e la sabbia si intrufola in qualunque orifizio. E così ho capito che non c'erano stati soldati pasticcioni. Nessuno aveva fatto cadere la trasmittente».

Perché scrive che «su quella spiaggia c'era il mondo intero»?

«Oggi, Dunkerque sembra ridotta a una singola storia. In realtà si è trattato di centinaia di migliaia di persone che si sono ammassate in una piccola area del Nord della Francia e del Belgio per più di dieci giorni. E ciascuna di loro ha vissuto una storia diversa. Per molti è stata un'esperienza orribile. Impazzivano per la fame, e il loro stato mentale era sconvolgente. Un soldato ha descritto i suoi piedi come un ammasso di lana, sangue e ossa esposte. Eppure per altri fu una esperienza diversa».

Per esempio?

«Alcuni ricordano di essersi sdraiati sulla sabbia a prendere il sole, a giocare a carte e a ridere. Alle spalle delle spiagge, i bordelli erano aperti, e le code rispecchiavano le code per fuggire, sulle spiagge. Un uomo ricorda di essere entrato in un ristorante e di avere ordinato champagne: era la prima volta in vita sua. Alcuni ricordano la disciplina mentre gli uomini si mettevano in fila per imbarcarsi sulle barchette; altri il caos e i litigi, mentre i soldati sgomitavano per tornare a casa».

Come è stato incontrare i veterani?

«Una delle esperienze più strabilianti del film. Ho viaggiato con il regista Nolan per tutta la Gran Bretagna, incontrando uomini ultranovantenni. Oggi la memoria vivente sta per diventare storia. Presto questi uomini non ci saranno più, per raccontarci come è andata davvero. È fondamentale ascoltarli».

Un racconto speciale?

«Uno di loro, Harold Vic Viner, ci ha raccontato di avere visto i soldati camminare in mare e cercare di nuotare fino in Inghilterra. Questi uomini non sono sopravvissuti: lui l'ha descritto come un suicidio, ma poi ha aggiunto che avevano toccato il loro limite psichico. Uno si chiede se si stessero uccidendo consapevolmente; oppure se davvero credessero di poter nuotare fino in Inghilterra. Qualunque sia la verità, l'immagine era così angosciante, che Nolan l'ha messa nel film».

Che cosa ricordano di più questi uomini?

«Le condizioni sulle spiagge, sul molo; le loro convinzioni sul farcela o meno. Uno, Garth Wright, scavò un buco nella sabbia mentre cadevano le bombe e credeva sinceramente che sarebbe morto. Oggi ha quasi cento anni, vive a Plymouth e si gode la vita più che mai. Tutti loro comunque hanno parlato dello spirito di Dunkerque».

Che cos'è?

«Erano tornati in Inghilterra credendo di essere i rimasugli di un esercito sconfitto; ma furono trattati da eroi. Quando andavano nei pub, la gente portava loro da bere.

È stato un sollievo istintivo, nella popolazione: gli uomini erano tornati, la guerra sarebbe continuata. Questa emozione fu incoraggiata dalle autorità, e lo spirito di Dunkerque è ancora con noi. Ha finito per rappresentare un tratto tipico dei britannici: diamo il meglio nelle difficoltà...».

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