Lo abbiamo visto sul tavolo d'acciaio, dissezionato come un freddo cadavere già all'età di poco più di vent'anni. Lo abbiamo ascoltato, amato e studiato come un classico nelle università di mezzo mondo, nonostante lui non facesse altro che schermirsi, sostenendo di essere solo un cantastorie armato di chitarra acustica, armonica, penna e taccuino. Lo abbiamo fatto accomodare sul lettino dell'analista, nel vano tentativo di cogliere le sfuggenti sfaccettature della sua personalità camaleontica. Abbiamo persino frugato nella sua spazzatura, collezionandone i rifiuti, o meglio lo ha fatto un suo stravagante fan negli anni Settanta, quando Dylan abitava in MacDougal Street, nel Village di New York. Alla fine, non senza mugugni e rimbrotti, gli abbiamo assegnato il Nobel per la Letteratura, di fatto proiettandolo a pieno titolo nell'Olimpo dei grandi.
Lui non si è mai scomposto. Si è sposato un paio di volte (nel secondo caso, riuscendo a tenere nascosta persino la nascita di un figlio, iscrivendolo all'anagrafe sotto il cognome della madre per proteggerlo dai media), ha venduto centinaia di milioni di dischi, ha avuto innumerevoli amanti, ha prodotto un whisky per pochi palati, ha curato una trasmissione radiofonica, indossando le cuffie da Dj, ha scritto il primo volume di un'autobiografia, ben sapendo che non ce ne sarebbe stato un secondo e che di se stesso avrebbe raccontato poco di nuovo, finendo per alimentare lo stesso mistero che ne aveva amplificato a dismisura la leggenda. Soprattutto, non ha mai smesso di portare le sue canzoni in giro per il mondo in quello che lui stesso ha definito Neverending Tour, tour infinito. Signore e signori, questo e moltissimo altro è Bob Dylan.
Naturalmente, lo abbiamo visto cambiare abito e postura nei decenni. Assistere alle sue trasformazioni ha portato con sé, immancabilmente, domande a cui non ha voluto rispondere, demandando alla musica l'unica spiegazione possibile.
Diversi anni fa, conobbi l'americano Joe Boyd, il leggendario scopritore dei Pink Floyd (di cui produsse il primo 45 giri, prima che qualcun altro glieli soffiasse da sotto il naso) nonché il mentore e produttore di stelle di prima grandezza del firmamento folkrock britannico come Nick Drake, Fairport Convention e The Incredible String Band, solo per citare le più luminose. Boyd, con malcelata soddisfazione, mi confessò di essere stato la persona che fisicamente aveva dato la corrente elettrica a Bob Dylan e al suo gruppo nel retropalco del Newport Folk Festival. Volete sapere se realmente le cose andarono così? Il giorno che Bob Dylan prese la chitarra elettrica (Vallardi, pagg. 368, euro 18,90; traduzione di Nicola Ferloni) del giornalista americano Elijah Wald, un profondo conoscitore della musica folk a stelle e strisce così come della storia del rock, fa esattamente al caso vostro.
Utilizzando materiale inedito prezioso, Wald ricostruisce non solo la sequenza di eventi che portarono, in un crescendo parossistico, alla svolta elettrica del 25 luglio 1964, quando il menestrello Dylan salì sul palco del Newport Folk Festival indossando giacca, stivali di pelle e occhiali scuri e imbracciando una Fender Stratocaster al posto del cappellino e della camicia di flanella e dell'immancabile chitarra acustica, tenuta da folksinger. Dylan era già il cantautore prediletto della sua generazione, ma questa virata improvvisa in realtà abbondantemente annunciata da un disco come Another Side of Bob Dylan nel 1964 (in cui rinunciava alla canzone politica, virando verso un intimismo quasi da chansonnier francese) e ancor più da Bringing It All Back Home nel marzo del 1965 (con la prima facciata all'insegna di un torrenziale blues in stile Chicago e la seconda occupata da brani acustici, come ad annunciare ufficialmente un passaggio epocale) fu un colpo basso per il mondo schierato dei beatnik e del folk revival.
Con Il giorno che Bob Dylan prese la chitarra elettrica, Elijah Wald ricostruisce il difficile rapporto tra due figure forti e controverse quali lo stesso Dylan e Pete Seeger, padrone di casa a Newport, ma soprattutto illustra con dovizia di particolari e aneddoti il percorso artistico
del grande genio di Duluth: la sua non fu un'illuminazione sulla via di Liverpool, dopo aver conosciuto la forza espressiva del sound dei Beatles. Il suo fu, piuttosto, un meditato ritorno a casa, nel Delta del Mississippi.
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