E voi che cosa fareste se vi restassero 6 mesi di vita?

È il dilemma cui si trova di fronte il protagonista del nuovo romanzo di St Aubyn. Un'idea ci sarebbe. Scrivere...

E voi che cosa fareste se vi restassero 6 mesi di vita?

Devo assumermi le mie responsabilità e ammettere che ho sperimentato il Prozac. So di aver detto che non lo avrei fatto e immagino che questa rivelazione faccia di me un narratore inaffidabile, se è questo il senso in cui va inteso il termine.

Che cosa mi ha indotto a farlo? Non certo una sensazione di futilità. Sono consumato dal bisogno di scrivere qualcosa di onesto e compiuto, prima di morire.

La paura, ecco cosa. Paura allo stato puro. Qualcosa sta bruciando, qualcosa ha preso fuoco. Sono io, a bruciare. Ma invece di restarmene tranquillo nel camino, accettando di essere un ceppo in forma umana, non faccio che correre da una parte all'altra, appiccando il fuoco a ogni cosa arazzi, tende, quadri: tutti oggetti insostituibili e non assicurati. Non potrebbe esserci esempio più lampante della mia totale mancanza di considerazione. Invece di consentire a mia figlia di poter dire, un giorno: «Questa è la casa in cui viviamo sin dal 1999», le lascerò solo rovine, e null'altro. Potrebbe arricciare il naso e aggiungere: «Insomma, in realtà se quella casa valeva qualcosa era solo per quel che c'era dentro». Se invece mostrassi almeno un minimo di considerazione e salvassi dalle fiamme la ruota Neo-Geo e i tappeti aborigeni australiani, potrebbe dire, con una punta di tenerezza nella voce: «Tutto sommato Papà non era poi così cattivo».

In realtà, non è stata nemmeno questione di paura.

A indurmi a prendere il Prozac è stata Lola. Lola è una mia amica incredibilmente colta, e temevo da un pezzo una sua chiamata. Cosa avrei potuto rispondere alle sue gongolanti condoglianze? «Come potrai immaginare, sono immerso nella lettura di Marco Aurelio» oppure «Mi sono accorto che in questi giorni l'unica cosa che mi riesce di ascoltare sono gli Ultimi Quartetti». Che cosa potrebbe mai soddisfare la sua brama di serietà?

Quando mi è piombata addosso, non avevo avuto ancora il tempo di escogitare nulla.

«Hai già cominciato a scriverne?».

«Di cosa?».

«Della morte».

«Come hai fatto a scoprirlo?».

«Quindi hai cominciato?».

«No. Non credo che sia interessante».

«Un'opportunità sprecata. Come sai bene, ho sempre pensato che potessi scrivere qualcosa di serio».

«Per me sarebbe uno spreco di tempo» ho detto. «Ti lascio campo libero, se vuoi, e senza bisogno che tu senta di aver invaso un territorio mio».

«Be', se stessi morendo...» ha detto lei. «Ricordo bene quando eri ancora una matricola all'università, e con quanta passione studiavi la mente e il suo funzionamento. Ci aspettavamo grandi cose da te, e invece ti sei fatto risucchiare dal mondo del cinema, con tutte le sue banalità. Non ti girano per la testa idee di quelle grosse, al momento?».

«Soltanto idee troppo grosse o molto piccole. Sono quelle di medie dimensioni a scappare, quando c'è un'emergenza».

«Potresti scrivere questo, intanto».

«No» ho risposto in tono secco prima di riattaccare.

In ogni caso, il fatto di prendere il Prozac è positivo. Dimostra un atteggiamento costruttivo, da parte mia. Mi induce a fare progetti, a esibire senso pratico. Le idee di medie dimensioni sono tornate. Mi saranno pure rimasti sei mesi di vita, ma devo comunque tirare avanti. Ho deciso di andare a New York, a trovare il mio agente, Arnie Cornfield. Arnie è famoso per la sua tirata introduttiva: «C'è chi vuole un agente perché gli tenga la mano. C'è chi vuole una spalla su cui piangere. Be', io non sono quel tipo di agente. A me interessa una cosa, e una soltanto: i soldi».

Quando stavo scrivendo Alieni dal cuore umano (forse siete tra i 53 milioni di persone che hanno pagato il biglietto per andare a vederlo), mi divertivo a far notare agli scrittori che si sforzavano di tirare avanti con un anticipo di 3800 sterline splittato nell'arco di diciassette anni, che il romanzo era morto. Ora che sto per raggiungerlo nell'aldilà, non ne sono più così sicuro. Perché il romanzo dovrebbe morire? Quanto a questo, perché chiunque dovrebbe farlo?

Ad Arnie non farà piacere sapere che voglio scrivere un romanzo. Peccato. In fondo, mi servono solo i soldi per tirare a campare fino al giorno in cui uscirò di scena. La casa che ho comprato vicino a Saint-Tropez costa una barca di quattrini in manutenzione. È una villetta rosa con i cancelli bianchi. Ha di fronte due alberi di palma, illuminati a giorno per evitare che i ladri ci vadano a sbattere contro. Sul retro ci sono quattro minuscoli cipressi che, come timide damigelle d'onore, accompagnano il vialetto asfaltato fino al garage. Se ci si arrampica in cima al tetto e si fa un salto, si riesce a vedere il mare. L'interno è pieno di nicchie ancora vuote e di scalini che portano da un ambiente all'altro. Due scalini per entrare in cucina, tre per scendere in soggiorno, uno per salire sul patio, due per andare in giardino e un ultimo glissando di scalini per tornare all'ingresso.

È come se l'architetto che ha progettato la casa si fosse imbattuto per caso nel concetto di «scalino», incredulo di tanta fortuna. Che bello, questo strano oggetto per fare su e giù. C'est un pétit miracle.

Provate a immaginare l'atmosfera di eccitazione che deve aver pervaso il cantiere di fronte agli albori di una nuova possibilità, come quando l'Homo habilis ha frantumato per la prima volta con una pietra le ossa della carcassa di una gazzella, succhiandone il midollo. Il mondo non sarebbe più stato lo stesso.

La cosa strana di tutte queste scoperte è che spesso accadono simultaneamente in tanti posti diversi: inevitabile dedurne che forse certe idee sono semplicemente «nell'aria».

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