Eastwood con «Sully» racconta i valori dell'America borghese

Il film sul famoso ammaraggio nell'Hudson? Zero retorica e 100 milioni di incassi (per ora)

Eastwood con «Sully» racconta i valori dell'America borghese

dal nostro inviato a New York

«Sully» (dall'1/12 nelle nostre sale) è, prima di tutto, una lezione di cinema. Che ad impartirla sia un mostro sacro come Eastwood pare quasi logico, ma non scontato. Un film essenziale, conciso, ripulito da inutili fronzoli, eppure affascinante, magnetico, che fila dritto al punto. Un vero miracolo, subito premiato al botteghino, con incassi che filano oltre i 100 milioni di dollari in meno di un mese, per raccontare un altro miracolo, quello compiuto, il 15 gennaio 2009, dal comandante Chelsey «Sully» Sullenberger, capace di salvare, con un ammaraggio impossibile sul fiume Hudson, la vita di 155 passeggeri, dopo che il suo aereo, colpito da uno stormo di uccelli, con entrambi i motori fuori uso, rischiava di schiantarsi su New York. Un eroe per la gente, ma non per chi, frettolosamente, ne giudicò la manovra. I burocrati della National Transportation Safety Board accusarono il pilota di non aver fatto ritorno a LaGuardia, come pareva possibile dalle simulazioni al computer, mettendo, così, a rischio la vita di passeggeri ed equipaggio. Se condannato al termine dell'inchiesta, Sully avrebbe perso tutto: il lavoro, la pensione e, soprattutto, la dignità. Il film di Eastwood inizia proprio da questo momento e per novanta minuti racconta il dietro le quinte dello stato d'animo di un «eroe non per caso». Lo fa, sfruttando la bravura, enorme, di un Tom Hanks superlativo (Tom e Clint insieme. Si poteva pensare a coppia più intrigante sul grande schermo?), regalandogli continui intensi primi piani. A differenza di quanto avrebbero fatto altri colleghi, ad Eastwood interessa andare subito al nocciolo della questione, senza divagazioni, ad esempio, sulla vita passata del pilota (consegnata in due efficaci flashback) e privandosi di personaggi collaterali che avrebbero appesantito inutilmente la scena. La scelta vincente del regista, e lo si capisce fin da subito, è quella di lasciare al centro di tutto solo Sully (e il one-man-show di Hanks), i suoi tormenti, i suoi incubi (si immagina, in più occasioni, di vedere l'aereo schiantarsi contro i grattacieli), il suo sentirsi inadeguato anche di fronte alla improvvisa popolarità dovuta al suo straordinario gesto. Altri avrebbero cavalcato l'onda, ma non questo eroe moderno, preso a simbolo da Clint per sbugiardare la «generazione di fighette» che sta «rammollendo» l'America e che si sta consegnando al futuro nuovo presidente. Per ritrarre gli Usa di oggi, Eastwood non ha bisogno di immortalare famiglie di fatto, allargate, politically correct, tassa obbligata di ogni regista «dem». A lui, invece, basta dare dignità a un lavoratore che ha fatto il suo dovere con coraggio, uno che schivo confessa alla moglie, al telefono, di sentirsi inadeguato. La Storia, del resto, la fanno i piccoli, grandi uomini.

Non è la classica storia lineare. Clint, dopo aver «accolto» la platea subito dopo l'incidente (come a dire, non vi servo subito il piatto forte, ovvero la manovra miracolosa), inizia un perfetto gioco cronologico tra il «prima e dopo», facendo salire l'attesa per il «durante», la meravigliosa ricostruzione dell'ammaraggio, 208 secondi che lasciano con il fiato sospeso. Perché se è risaputo che l'aereo planò senza vittime, sull'acqua, è innegabile che si rimanga completamente catturati dalla fedele riproposizione di tutti quei drammatici istanti. Eastwood sfrutta ogni dettaglio, apparentemente insignificante, per trasformare lo spettatore in passeggero, facendogli rivivere, quasi in prima persona, l'angoscia di chi era realmente a bordo del volo 1549. Il sangue freddo di Sully e del suo copilota Jeff Skiles (Aaron Eckhart, in una delle sue performance più autentiche), ma anche delle hostess, con il loro inquietante ritmico scandire, mentre l'aereo sta precipitando, dell'avvertimento «Heads Down, Stay Down».

Il pilota smaschera il computer dimostrando che senza calcolare il fattore umano (il tempo necessario per la decisione da prendere davanti ad un avvenimento così inatteso) ogni simulazione perde di valore e significato.

La storia e l'indagine hanno collocato Sully al giusto posto d'onore, Eastwood e Hanks lo hanno consegnato all'immortalità del grande schermo.

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