Ecco chi era Quasimodo oltre il Nobel e le gelosie

Un volume raccoglie saggi e testimonianze sul poeta, ferocemente criticato dopo il premio

Ecco chi era Quasimodo oltre il Nobel e le gelosie

L'assegnazione del Nobel per la letteratura a Salvatore Quasimodo segna un punto insuperabile nella storia del masochismo italico. Emilio Cecchi, dal pulpito del Corriere della Sera, azzardò quell'elzeviro dall'incipit micidiale, «A caval donato non si guarda in bocca...»; da allora, un po' tutti hanno fatto a gara a denigrare il poeta. Tra i Poeti italiani del Novecento (Mondadori, 1978), Pier Vincenzo Mengaldo, per dire, è obbligato a stipare Quasimodo (ma Nelo Risi, Virgilio Giotti e Giacomo Noventa sono liricamente più rappresentati di lui), e lo fa in negativo, asserendo che la sua poesia («quando si giunge, alla poesia») «non va oltre l'arguzia intellettualistica o la banalità sentimentale». Quasimodo percepì questa incipiente ferocia perfino da Stoccolma: il suo discorso di accettazione del Nobel, Il poeta e il politico amico di Giorgio La Pira, si iscrisse al Pci nel 1945, la militanza fu brevissima , da rileggere, insiste sul fatto che «Il poeta è solo: il muro di odio si alza intorno a lui con le pietre lanciate dalle compagnie di ventura letterarie». Capì, prima di altri, che «gli adulatori della cultura sono i suoi fanatici incendiari». Era il 1959 ed è vero, tra i nominati al Nobel spiccavano figure di primissimo piano, André Malraux, E.M. Forster, John Steinbeck, Karen Blixen, Graham Greene, Ezra Pound e Martin Heidegger; gli italiani erano rappresentati da Vasco Pratolini e da Alberto Moravia: Quasimodo, al loro cospetto e alla luce dei fatti nel 1950 ottiene il Premio San Babila, già vinto da Ungaretti; nel 1953, insieme a Dylan Thomas, è onorato con l'Etna-Taormina , più che un caval donato era un cavallo di razza.

In Poesia italiana del Novecento (1968), antologia ideologica ma piena di intuizioni folgoranti, Edoardo Sanguineti liquidò il poeta scrivendo che «Il suo più vero contributo originale alla poesia del nostro secolo non è da riconoscersi nella produzione creativa, ma nelle traduzioni dei Lirici greci». Non aveva del tutto torto: nel discorso per il Nobel Quasimodo cita, dei suoi libri, proprio i Lirici greci. Dotato di un orecchio assoluto per il ritmo, Quasimodo riuscì a rendere arcano l'arcaico, a sfidare l'accademia, a fare di Saffo la nostra sorella più prossima, cugina di Emily Dickinson, una vicina di casa, che annaffia le rose in giardino. Per paradosso, le poesie di Quasimodo ci paiono più antiche delle sue traduzioni degli antichi, spesso memorabili, nel mistero di un'eternità subacquea, che soggioga la Storia a mero gioco di specchi («Tramontata è la luna/ e le Pleiadi a mezzo della notte;/ anche giovinezza già dilegua,/ e ora nel mio letto resto sola»). Tra le molte cose, Quasimodo ha tradotto molto Shakespeare ma con sintonia difforme , Eschilo, Euripide, Ovidio; andrebbero riprese le traduzioni dall'Odissea e dalle Georgiche di Virgilio; quieta e solenne è la versione del Vangelo secondo Giovanni. Senza Quasimodo, esercizi di traduzione più estremi tentati da Pasolini, da Ceronetti, da Sanguineti, ad esempio sarebbero impensabili.

Si continua, oggi, a pubblicare il poeta con la stanca obbedienza alle norme consolidate, per fare un favore ai medagliati, riferendo di una nobiltà accattona: per questo l'album Per Salvatore Quasimodo (Ares, pagg. 232, euro 18), è strumento necessario; anche per la scrittura, di alta crudeltà, di Curzia Ferrari, confidente, amica, musa del poeta. Nel testo cardinale del libro, non sono rari gli acuti che descrivono l'indole di Quasimodo: «Lui soffriva la perdita di persone immaginate fedeli o comunque equanimi nel giudizio: rimanere solo con la propria vittoria non gli dava soddisfazione a vivere. Per vivere da soli e guardare il mondo con sufficienza si deve essere una bestia o un dio, afferma Aristotele». Il testo di Roberto Mussapi svela il Quasimodo traduttore, quello di Vincenzo Guarracino tenta «una storia della critica della poesia di Salvatore Quasimodo», l'album fotografico, vasto, è affascinante: il poeta indaga il mondo con commozione essenziale, pare allegro. Cesare Cavalleri tira le fila di questo «invito alla lettura»: Quasimodo è uno dei suoi autori domestici; in una lunga (e bella) intervista Gilberto Finzi, che ha curato il Meridiano di Quasimodo, gli rivelò la volta «che mi fece conoscere Pablo Neruda; me lo propose a bruciapelo, un giorno, in casa sua, e io mi schermii per l'abito in disordine, per le scarpe impolverate... ma lui mi portò in disparte, mi spazzolai le scarpe, e insieme, in taxi andammo da Neruda. Quasimodo era anche, a suo modo, divertente» (Studi cattolici, n. 435, maggio 1997). Amava la vita, Quasimodo, e le avventatezze feriali, pare tra l'altro, per Einaudi aveva tradotto proprio Neruda.

Iniziato alla Massoneria nel 1922, l'anno in cui Thomas S. Eliot pubblicava La terra desolata, Quasimodo muore nel giugno del 1968: è sepolto nel Cimitero Monumentale di Milano, al fianco di Alessandro Manzoni. Nel coccodrillo, Gianni Brera gli fece un ritratto, secondo il suo stile, da barocco padano «Il profilo da uccello palustre, due baffi secenteschi per ridurre, penso, l'imperiosa imponenza del becco. Dicevano tanto male di lui come uomo che doveva essere molto buono e grande» , e lo vendicò: «Insignito del Nobel, si disse che era stato merito di Nordahl, calciatore del Milan. Si scrisse che a caval donato non si guarda in bocca. Partenope Sera teneva per Montale che avrebbe voluto cantare da baritono». Anni dopo, anche Giovanni Testori se la prese con gli «imperanti re della poesia inNobelata», riferendosi a Montale, che ordinò «generalissimo silenzio» intorno a un suo libro in versi, I Trionfi.

Altri tempi, quelli in cui i poeti si sfidavano a viso aperto, avidi di sole: adesso se ancora esistono si spalleggiano, dormono nello stesso letto, ambiscono a una carriera da portaborse o da editor e ti denunciano se scrivi che scrivono futili schifezze.

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