Ogni osservazione è un'avventura, ogni esperimento una battaglia, ogni descrizione una storia. Ogni insetto, un mondo in cui immergersi, e immergere il lettore. Jean-Henri Fabre è nato nel 1823 a Saint-Léons du Lévézou, in Occitania, ma il pubblico a cui si rivolge è già quello di due secoli dopo: quest'uomo, cresciuto in una famiglia povera, che studia da autodidatta, oggi è considerato il padre dell'entomologia (e la sua casa di Sérignan, dove è morto nel 1915, è un museo); e non è considerato tale solo per le sue scoperte, ma anche per la rivoluzione nel metodo di studio degli insetti, alla quale va aggiunta, dal punto di vista letterario, la modernità dello stile delle sue opere.
Fossero pubblicati oggi, i saggi di Fabre stravincerebbero il Pulitzer (o almeno dovrebbero...), per la sua capacità straordinaria di raccontare la scienza in modo personale, divertente, appassionante, insomma per il suo essere un divulgatore davvero popolare, nel senso migliore termine. E la prova sono i suoi Ricordi di un entomologo, dieci volumi pubblicati in origine fra il 1879 e il 1907, poi in edizione definitiva nel 1920 per Delagrave, con il titolo francese di Souvenirs, che Adelphi ha deciso di proporre integralmente in italiano: dopo i primi due volumi (gli unici già tradotti), raccolti lo scorso anno nel «Volume primo», arriva ora il «Volume secondo», che comprende il terzo e il quarto (pagg. 752, euro 40; traduzione di Laura Frausin Guarino). La mole è quella che è: immensa, tanto quanto il campo di studi di Fabre, l'infinito universo degli insetti, che riservano sorprese a ogni battito d'ali; ma la narrazione, seppure scientifica, è alleggerita dal tratto autobiografico, dall'umorismo, dalle riflessioni e dalle polemiche sul dibattito più attuale a quel tempo, quello sulla teoria evoluzionistica di Darwin (grande ammiratore degli studi di Fabre) e dalle frecciate di Fabre ai suoi colleghi, da lui accusati di vivere nella torre d'avorio della vanità e dell'arroganza professorale, anziché inoltrarsi, come lui, nell'esplorazione dal vivo del territorio.
Ecco una tipica giornata del giovane Fabre che, a 34 anni, nell'«epoca felice in cui da maestro divento scolaro, scolaro appassionato di insetti», si avventura a Les Issards, bosco ceduo vicino ad Avignone, a caccia di scolie: «Come uno sradicatore di robbia che si prepara alla sua giornata di lavoro, mi sono avviato con un robusto attrezzo da scavo portato a spalla, il luchet, come lo chiamano in paese; e, sulla schiena, lo zaino con scatole, flaconi, paletta da giardiniere, tubi di vetro, pinzette, lenti e altri aggeggi. Un grande ombrello mi protegge dall'insolazione. È l'ora più torrida della canicola».
Ma l'entomologo Fabre non si lascia fermare dalle condizioni meteorologiche o dalla fatica: più avanti con gli anni si porterà appresso il cane Bull o il figlio Émil, ma la passione della ricerca supera qualsiasi fatica, perfino il senso del ridicolo che, autoironicamente, talvolta sembra assalirlo. «Non è un gioco infantile documentarsi con tanta minuzia su vita, morte e miracoli di un insetto? (...) Così concluderei io stesso, ponendo fine alle mie ricerche, se non scorgessi nel tumulto delle osservazioni farsi un po' di luce sulle più grandi questioni che ci sia dato sollevare». È così che, dalle bombix alle domande esistenziali, il passo è breve: «Che cos'è la vita? Potremo mai risalire alle sue origini? Ci sarà consentito di far nascere in una goccia di albume i vaghi fremiti che preludono a un organismo? Che cos'è l'intelligenza umana? In che cosa si differenzia dall'intelligenza dell'animale? Che cos'è l'istinto? Le due facoltà psichiche sono irriducibili? O vanno ricondotte a un fattore comune? Le specie sono collegate l'una all'altra dalla filiazione del trasformismo?» La risposta all'ultima domanda, per Fabre, è «no». Ovviamente ammira Darwin, lo cita spesso, ma non ne condivide le teorie. Anzi, secondo Fabre, sono proprio l'osservazione e la sperimentazione sugli insetti a togliere ogni dubbio sul fatto che l'istinto non sia una «abitudine acquisita»; così come è sempre la sperimentazione, che lui conduce con pazienza in casa propria (fra ceste del bucato, travi del soffitto, muretti, camini, cespugli e in qualsiasi altro luogo in cui i suoi amati insetti costruiscano nidi, nascondano prede, scavino...), a condurlo alla conclusione che l'insetto abbia la capacità del «discernimento», ma non dell'intelligenza: ovvero come, anche di fronte a un ostacolo o a condizioni mutate, esso rimanga schiavo della «cieca perseveranza nelle abitudini»; al massimo, può introdurre una piccola variazione a quelle stesse abitudini (il «discernimento» appunto), ma nulla più. Per esempio, il bruco di pavonia maggiore, la farfalla più diffusa nei campi vicino a casa sua, crea una perfetta «palizzata di fili» per il suo bozzolo; ma, quando Fabre taglia un'estremità della palizzata, l'animaletto non si ingegna a riparare il buco, bensì prosegue la sua opera come se il bozzolo fosse intatto, mettendo così a rischio la vita della futura farfalla.
Fabre racconta il mondo degli insetti/operai: muratori (l'ape muraiola, la vespa muratrice), falegnami (l'ape legnaiola, il lithurgus), vasai (l'agenia), minatori (l'antophora), cotonieri e resinieri (gli anthidium), costruttori e arredatori; racconta come anche per gli insetti valga il motto di Brillat-Savarin, «dimmi quello che mangi e ti dirò chi sei»; prende le difese dei parassiti, non «veri parassiti» come certi umani riprovevoli, bensì, semplicemente, animali nel pieno della lotta per la vita, che è lavoro duro, per tutti; annota, riproduce, scava, smuove, si inerpica, si spiaccica a terra, coltiva, conserva e, soprattutto, osserva gli implacabili predatori al lavoro, tanto meticoloso quanto le loro mandibole nel paralizzare in maniera quasi stregonesca (o chirurgica, dipende dai punti di vista) la vittima. Ce n'è per tutti i gusti, assassini brutali, killer col bisturi, attacchi al volo, agguati meditati, prede piccole consumate subito e grosse prede conservate - in vita, ma immobilizzate - per due settimane. Contesta i nomi ufficiali, nati dalla predilezione degli scienziati per i «cadaveri» e le «necropoli», ovvero per infilzare e dissezionare, anziché osservare gli insetti dal vivo, nelle loro attività: «Si classificava un animale più o meno come si fa con un cristallo: la struttura era tutto; la vita, con le sue più grandi prerogative, l'intelletto, l'istinto, non contava».
Per Fabre il senso dell'entomologia è un altro, ed è quello che ci ha lasciato in eredità: «Mi piace credere che il futuro farà fare un
bel passo avanti all'entomologia: ci si renderà finalmente conto che l'insetto infilzato delle nostre collezioni ha vissuto, e ha vissuto esercitando un mestiere». Lui ha già provato a raccontarlo, l'insetto, e da maestro.
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