da Venezia
Ieri Eugenio Scalfari ci informava su Repubblica di aver visto anticipatamente Che strano chiamarsi Federico di Ettore Scola - facendo così uno sgarbo sia alla Biennale sia a tutta la stampa italiana - e di essersi commosso. Anzi: «Commosso non è la parola esatta, alla fine ho pianto come di rado mi capita». Dando un po' ragione a Marco Giusti che su Dagospia, a festival ancora non iniziato, scriveva che mancavano proposte stravaganti al Lido, «se non riteniamo stravaganti gli omaggi a Lino Miccichè, a Berlinguer, a Francesco Rosi, a Carlo Lizzani, a Anna Magnani. Ma non fanno un po' troppo pagina culturale per novantenni di Repubblica? Un po' di gioventù non avrebbe guastato».
Comunque sia Scalfari, 89 anni, non ha fatto in tempo a riporre il fazzoletto che lo stesso Ettore Scola, 82 anni, l'ha gelato appena sbarcato al Lido con una battuta folgorante: «A ottant'anni anche se vedi una cotoletta fatta bene ti metti a piangere, è una secrezione lacrimale abbondante, non è emozione vera». E, come se non bastasse, ha commentato causticamente anche l'arrivo del presidente Napolitano che ha presenziato in Sala Grande alla proiezione del suo film preceduta dal premio Jaeger-Lecoultre Glory: «Viene a perdere tempo come se non avesse altro da fare. E sì che è uno dei pochi che ancora ragiona».
D'altro canto la scuola di Scola è quella del Marc'Aurelio, la mitica rivista satirica con cui collaborò nei lontani anni '40 insieme a Fellini, Maccari, Metz, Marchesi, Mosca, Steno, Age e Scarpelli, che ha un posto di primo piano nel suo nuovo film: sotto le mentite spoglie di un sentito omaggio a Fellini un racconto molto intimo e autobiografico dello stesso regista nato nell'avellinese Trevico ma da sempre cittadino romano. Che strano chiamarsi Federico, titolo ispirato a un verso della poesia De otro modo di Federico García Lorca e da giovedì prossimo nelle sale, è un lavoro che all'inizio fonde ricostruzioni d'epoca, immagini di archivio, illustrazioni. Diventando poi certamente, quando vediamo Scola girare di notte in auto - sullo sfondo la Roma della Grande bellezza - con un Fellini insonne, un viaggio nel cinema del grande regista più volte premio Oscar ma anche un esercizio, per Scola, di memoria liberatoria.
In un'epoca che non c'è più e che sembra anche distante anni luce. Non solo perché le bellezze degli spettacoli di rivista avevano i peli sotto le ascelle, ma proprio perché oggi non ci sono più quei protagonisti. Per non parlare di attori come Mastroianni o della triade Sordi-Gassman-Tognazzi che vediamo nelle curiose immagini dei provini per Casanova (ma alla fine fu preso Donald Sutherland).
Memoria di un cinema che non esiste più ma che qui, all'edizione numero 70 della Mostra, ha avuto grandissimo spazio. Forse troppo, con tanto di sezione, «Venezia Classics», poi non così seguita (e forse andrebbe fatta più di una riflessione su come lavorare - magari con le università - per far venire più giovani alla Mostra nell'economicamente proibitivo Lido). Così lo sguardo rivolto a un passato che non tornerà più ha avuto come protagonisti, oltre alla riproposizione di alcuni capolavori di Visconti, Rosi, Petri, Rossellini, Damiani, Brusati, anche alcuni omaggi a miti del nostro cinema come la Magnani che nel documentario di Marco Spagnoli è raccontata nel suo periodo hollywoodiano oppure a Pasolini e la sua Africa nel lavoro di Enrico Menduni.
Luca Guadagnino e Walter Fasano hanno realizzato un bellissimo montaggio in cui Bertolucci, ora presidente della giuria del concorso, si racconta in prima persona mentre Francesco Miccichè racconta nel toccante Lino Miccichè mio padre. Una visione del mondo la vita di uno dei più importanti intellettuali legati al cinema degli ultimi cinquant'anni.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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