Feste tristi, starlette e nazisti. La Hollywood di Fitzgerald

La serie di Amazon porta sul piccolo schermo l'ultimo romanzo dello scrittore americano

Feste tristi, starlette e nazisti. La Hollywood di Fitzgerald

C'è di tutto nella vita di Francis Scott Fitzgerald (1896-1940): il successo, la bella vita, la crisi del 1929, la pazzia della donna amata. E questi sono gli elementi che hanno animato i suoi romanzi più noti: Di qua del paradiso, Belli e dannati, Il grande Gatsby.

Ma nella vita di Fitzgerald (sarà stato meno romantico ma la vita non lo è mai), c'è stato anche l'adattarsi, il sopravvivere, il tirare a campare, il peso del venire a patti. Lo scrittore dopo la sua crisi depressiva del 1936, economicamente mal in arnese, cercò di ricostruirsi una vita a Hollywood. Nel 1937 accettò di lavorare come sceneggiatore per la Metro-Goldwyn-Mayer per diciotto mesi. Nel frattempo ebbe una relazione con la giornalista mondana Sheilah Graham, che lo aiutò a riacquistare, in parte, un equilibrio.

Il lavoro non lo entusiasmava ma gli procurò, se non altro, una certa tranquillità economica lasciandogli il tempo per scrivere. Collaborò in questo periodo a diversi film: Donne (The Women) del regista George Cukor, l'adattamento di Three Comrades di Frank Borzage. È in questo periodo che Fitzgerald lavorò al suo ultimo e mai terminato romanzo: The Last Tycoon (che per noi italiani è Gli ultimi fuochi). Questo romanzo, rimasto sbozzato, ci racconta, con molta disillusione, proprio la vita a Hollywood. Per dirla con le parole del critico Edmund Wilson (1895-1972) che ne curò l'edizione: «The Last Tycoon è di gran lunga la migliore opera narrativa che sia mai stata scritta su Hollywood, e la sola che ci conduca dietro le quinte. È stato possibile integrare questa stesura incompiuta con un riassunto del seguito della vicenda, quale Fitzgerald intendeva svilupparla, e con parte degli appunti dell'Autore, appunti che si riferiscono, spesso in modo brillante, ai personaggi e agli episodi».

È da qui che prende le mosse la serie di punta della piccola ma agguerrita library di Amazon Prime Vision (il servizio di streaming gratuito per chi ha Amazon Prime) che è disponibile on line in Italia da alcuni giorni. E non è da tutte le fiction avere un nocciolo della trama figlio della fantasia di Francis Ford Fidzgerald (1896-1940)...

Va detto che la narrazione, liberamente ispirata per carità, si discosta abbastanza da quella originale. Lo fa soprattutto nella trama, che prende proprio una sua strada propria. Mantiene però alcuni degli elementi che contano nel romanzo di Fitzgerald: il glamour che alla lunga asfissia, le lotte di potere, la crisi del 1929 che lambisce anche il mondo dei grandi Studios. Insomma, il sogno americano ma col fiato corto e guardato anche dal suo lato sporco, quello dove chi perde si fa del male. Anche il risultato è gradevole, nonostante gli sceneggiatori, tra cui Christopher Keyser e Billy Ray, abbiano di necessità pigiato sull'acceleratore del lato glamour della storia, quel tanto che serve per il piccolo schermo.

A esempio non è farina del sacco di Fitzgerald il tema dei filo nazisti a Hollywood. Per carità, tutta storia vera, all'epoca la Germania era un mercato fondamentale per i film americani, e che vivacizza la narrazione in formato televisivo. Per questa parte della vicenda gli sceneggiatori si sono basati, come hanno spiegato a Wired, sul saggio The Collaboration di Ben Urwand. Non è la sola sottotrama modernizzante, si è anche allargato lo spazio regalato ai personaggi femminili. Ma Fitzgerald, che ha provato di persona la durezza del lavoro di sceneggiatura, probabilmente perdonerebbe (del resto, in 8 episodi è consento spaziare).

Quanto agli ambienti, agli oggetti e a tutto quel che è filologia applicata alla produzione televisiva, ormai il digitale ci ha abituato alla perfezione. E The Last Tycoon si attiene a quanto previsto: perfezione, con prevalenza di una iconografia luccicante. Tutto è più vero del vero, forse sin troppo. Roba che avrebbe persino entusiasmato Fitzgerald, quello giovane e speranzoso più di quello hollywoodiano del finale di partita. Una scelta diversa da quella del regista Elia Kazan che nel film, omonimo, del 1976 aveva scelto, anche come fotografia, tinte molto più crepuscolari. Niente confronti attoriali con quel film. Kazan aveva a disposizione: Robert De Niro, Tony Curtis, Robert Mitchum, Jack Nicholson. Però, a fare il critico malevolo, si potrebbe rimarcare che nella serie manca un po' d'anima, forse colpa anche degli attori, legnosetti a tratti, compreso l'emergente e osannato Matt Bomer.

Forse il tentativo di essere iconici e retrò ha contribuito a irrigidire inutilmente.

Ma forse lo scrivente ha torto e, anzi, hanno preso alla lettera quella frase di Fitzgerald proprio ne Gli ultimi fuochi - «La tragedia di quegli uomini stava nel fatto che nulla, nella loro esistenza, aveva mai affondato i denti in profondità» - e l'hanno trasformata in recitazione.

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