Il film del weekend: "Jackie"

Il ritratto raffinato e sobrio di una creatura dolente e ambigua, interpretata in maniera magnifica da Natalie Portman

Il film del weekend: "Jackie"

Candidato a tre Premi Oscar tra cui quello per la Migliore Attrice Protagonista, il film "Jackie" di Pablo Larrain ("Neruda") ripercorre la storia di Jacqueline Kennedy nei giorni successivi all'uccisione del marito. E' un biopic che ha nell'interpretazione di Natalie Portman il suo fulcro e nella ricostruzione d'epoca, sia per quanto riguarda i costumi che le scenografie, un'eccellenza.

La narrazione non segue un andamento cronologico bensì associazioni emotive e concettuali, quelle che emergono durante l'intervista che Jackie concede alla rivista Life. E' questo, infatti, lo spunto da cui parte il racconto: l'incontro concordato tra la vedova Kennedy e un giornalista.

Le confidenze di quelle ore, sulla carta, faranno epoca, ma ciò che più sembra interessare a Larrain è mostrare la complessità di una donna che il destino ha appena scaraventato via dal trono di quella che lei definiva la sua Camelot. La Portman interpreta una Jackie complessa e particolare, spezzata dal dolore ma anche lucida, composta e dignitosa, ancora intensamente padrona della propria immagine e del proprio ruolo. In queste ultime caratteristiche, quasi aliena come sembrano sottolineare le musiche inquietanti e angoscianti di Mica Levi.

Non emerge mai nitidamente la donna reale nascosta dietro il personaggio pubblico, come se ormai non esistesse più se non in versione inscindibile da quello. Nel momento di massimo sconforto, Jackie è una creatura in grado di farsi forza indossando un'ultima volta l'abito delle feste. Magari sgomenta e col bicchiere in mano, in solitudine, ma vuole assaporare ancora la fiaba in cui, al giornalista, dice di essersi imbattuta per caso sposando un Kennedy. Sigaretta dopo sigaretta mischia verità e bugie.

Indossa, all'occorrenza, finta ingenuità. Versa lacrime ma è incapace di abbandonare manierismi e artifici su cui ha costruito la propria identità. Ha una vocazione al protagonismo e una spiccata propensione a non lasciare nulla al caso. Il regista non la giudica, non cerca di renderla simpatica né respingente: la ritrae nel suo ambiguo essere, allo stesso tempo, fragile e invincibile.
Nelle scene in cui Jackie confessa al prete di sperare che ogni giorno sia l'ultimo, la sofferenza sembra umanizzarla ma quando si mette consapevolmente a rischio di nuovi attentati, anche il desiderio di morte sembra inserirsi in una tensione alla grandiosità. Del resto, a un certo punto, quasi ammette che nella determinazione a ottenere per il marito un omaggio funebre che lo consacri alla storia, protegge anche la propria di immortalità.

Nel replicarne la postura, la voce e le movenze, la Portman è magnifica. Le acconciature, gli abiti e i gioielli completano l'incantesimo: nonostante l'attrice non le sia particolarmente somigliante, Jackie è lì, sullo schermo, a fare gli onori di casa.
Quello di Larrain è un film descrittivo che, se conquista, lo fa solo blandamente, a livello di superficie, perché incentrato su una figura impenetrabile e conflittuale con la quale è difficile connettersi emotivamente: una persona che soffre ed è piena di ferite ma sembra non permettere loro di sanguinare per non rovinare la mise.

Una figura tristissima ma incapace di comunicare empatia o forse disinteressata a farlo, concentrata com'è a essere reverenziale nei confronti dell'icona che si sente chiamata a incarnare. Inaccessibile a se stessa, figurarsi allo spettatore.

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