In concorso all'ultimo festival di Venezia, "Suburbicon" è il sesto film di cui George Clooney firma la regia e segna l'ennesima collaborazione tra il divo e i fratelli Coen, che nel lontano 1986 ne scrissero una prima sceneggiatura. Si tratta di una commedia nera in cui l'ironia si accompagna alla denuncia sociale e in cui l'impronta irriverente e politicamente scorretta dei Coen, tra battute sarcastiche e violenza, è evidente. Questa volta, però, non si ha a che fare semplicemente con personaggi bizzarri, ma con un senso d'ingiustizia e frustrazione che, una volta emersi nitidi dietro alla farsa, lasciano un retrogusto amaro.
Suburbicon sembra uscita da una cartolina: è un'idilliaca comunità dell'America anni 50, tutta villette e prati ben curati. L'arrivo, da un giorno all'altro, nella cittadina rigorosamente bianca e middle class, di una famiglia afroamericana fa saltare gli equilibri e rivela la fragilità del concetto di buon vicinato. Come se non bastasse, poco dopo, avviene un omicidio in una casa poco distante, a seguito di un'intrusione. E' il punto di non ritorno: paranoia e pregiudizi oramai dilagano. Abitanti dall'apparenza irreprensibile si riveleranno creature con una spiccata propensione ad intolleranza, violenza e tradimenti.
"Suburbicon" è dichiaratamente, nelle intenzioni di Cooney, intrattenimento dal retrogusto politico: il regista, nella messa in scena delle tensioni razziali degli anni Cinquanta, sottintende infatti come le problematiche di allora siano le stesse dell'America di Donald Trump.
Il film è un viaggio pulp e grottesco nella mostruosità ipocrita che si cela dietro ad un certo perbenismo, dilagante e sempre attuale. Al centro del racconto, l'intrigo sentimentale perverso e omicida con protagonisti attori del calibro di Matt Damon e Julienne Moore (nel duplice ruolo di due sorelle), è uno spasso: la loro performance consiste nel nascondere crimine e scompiglio dietro a un'immagine di angelica perfezione. Riescono a sembrare paradossalmente misurati pur nella crudeltà e stupidità esagerate dei loro personaggi. A regalare la scena più appagante del film, però, è senz'altro Oscar Isaac, nei panni dell'assicuratore che deve indagare sulla polizza della moglie defunta di Lodge.
Clooney pesca direttamente dagli stilemi del noir hollywoodiano anni Quaranta e Cinquanta e li reinventa vivificandoli con innesti satirici.
La sua regia è ferma nel condurre i due filoni narrativi, il giallo da un lato e l'antirazzista dall'altro, ma non possiede il tocco graffiante dei Coen.Nel complesso, non si può dire che la pellicola brilli per originalità o si faccia ricordare, ma regala un'ora e mezza di divertimento pungente e qualche riflessione.
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