Come autobiografia è veramente minima: scorre veloce, troppo, e i suoi pilastri sono i libri scritti, tappe di un percorso tutto intellettuale.
Ma in verità In prima persona, l'ultimo lavoro di Alain Finkielkraut, che nell'edizione italiana di Marsilio porta come sottotitolo «Una memoria controcorrente», se, da una parte, è molto di meno, dall'altra, è molto di più di una autobiografia: è una magistrale e raffinata requisitoria contro il nostro tempo, le sue idee dominanti, il tradimento degli intellettuali (quasi tutti) e l'idea di «cultura» (è giusto mettere le virgolette) che è andata affermandosi.
Al centro del discorso di Finkielkraut si colloca il suo essere ebreo, e discendente di deportati. Una identità di cui egli ha svolto sempre tutte le contraddizioni, ma che si è illuminata di luce nuova dopo la lettura dei Quaderni neri di Heidegger, un autore a cui si è legato negli anni in una comunanza di pensiero. Per lui, come per altri «heideggeriani», in maniera più o meno inconscia, era come se «una parete a tenuta stagna separasse l'ontologia heideggeriana dal suo funesto impegno» nazionalsocialista. Caduta quella parete, Finkielkraut si scopre però ancora più heideggeriano, per così dire, più vicino alla carica antimoderna del filosofo tedesco, alla sua critica della Tecnica come visione del mondo che lo riduce a mero materiale sempre a disposizione (e plasmabile secondo i desideri e capricci del momento). Egli non si indigna, né giustifica la scelta dei Quaderni: comprende semplicemente che l'identificazione della ebraicità con lo sradicamento e la flessibilità cosmopolita accomuna Heidegger ai cantori attuali del tempo moderno. Ciò a cui l'uno, a ragione, si oppone; gli altri, i globalisti, elevano a modello di vita. «Nell'open society che guarda con paternalismo compassionevole il piccolo mondo di un tempo, non c'è più posto per l'indisponibile: deve poter essere comprato. Nell'epoca del gender, il sesso stesso tende a diventare opzionale». Tutto è à la carte.
Ma ecco lo spiazzamento logico: «Ciò che rattrista oggi l'opinione illuminata è che gli ebrei, per un fatale anacronismo, cambino orientamento e non siano più fedeli a se stessi»: contraddicono cioè la loro vocazione errante per difendere un'appartenenza territoriale, una «patria carnale», uno Stato fondato su base etnica quale è Israele. «E quando i globalisti, liberi da ogni radicamento, accolgono, alla discesa dei barconi, dei migranti, ossia degli esseri definiti non più dalla loro origine o dalla loro destinazione, ma solo ed esclusivamente dall'erranza, sono degli ebrei che soccorrono altri ebrei» siamo di fronte alla figura dell'«ebreo immaginario», che però ci dice molto su di noi e su ciò che siamo diventati. Oggi trionfa, in Europa e in Occidente, un'ideologia antidentitaria che assomiglia all'eresia del vescovo Marcione, che, nella chiesa primitiva, contrapponeva drasticamente l'universalismo basato sull'amore del Nuovo Testamento al particolarismo etnico del vendicativo Dio giudaico. Questo neomarcionismo porta con sé omologazione e conformismo: i luoghi perdono la loro specificità nel momento in cui diventano materiale a disposizione per il turismo (e qui Finkielkraut cita lo sfogo di Heidegger quando disse che il turismo andava abolito); le lingue, compresa quella di Shakespeare, in cui si esprime il genio dei popoli, annegano in un globish che è solo strumento d'uso e non apertura di un mondo; la cultura, come aveva previsto Charles Peguy (il «reazionario» che l'autore di queste pagine erge a suo maestro) svanisce nel «culturale», cioè ingloba tutto e perde ogni eccellenza. «La nostra società, che conta sempre più nemici dichiarati fra i popoli che entrano a farne parte, combatte, parlando di elitismo e di etnocentrismo, la predilezione per i suoi tesori... Al fanatismo islamico, la Francia e l'Europa rispondono con il nichilismo egualitario».
L'Europa è diventata la patria del marcionismo redivivo, le sue istituzioni si sono forgiate su questa ideologia, ma Europa e Nazione sono la stessa cosa. Chi ha illuminato il nostro sull'essenzialità di questo nesso sono stati i poeti e i pensatori «dissidenti» dell'Europa centrale, a cominciare dall'altro suo grande maestro, Milan Kundera.
La sfida sovietica a questo mondo era una sfida di civiltà, la sfida alla particolarità di una cultura, una storia, una tradizione. Libertà significa per questi popoli riconquistare la Nazione. Queste sfumature «il pensiero bau bau», come Finkielkraut definisce l'universalismo democratico, non può coglierle, con la sua arroganza che esclude in nome dell'ideologia dell'inclusione. Chi oppone resistenza perché non vuole «fare le spese del grande trasloco del mondo» è un «populista», e va messo alla gogna: «Gli emissari dell'umanità compiuta si arrogano, in buona fede, il monopolio della parola legittima». «Quelli che oggi dominano hanno una caratteristica particolare: sono convinti di combattere le idee dominanti», ma le idee dominanti sono le loro. Sono conformisti «ribellocrati». Sono ex sessantottini, come lo era stato agli inizi anche Finkielkraut come ci ricorda nelle prime pagine del libro.
Ma guai a pensare che quelli come lui sono divenuti conservatori, o peggio «reazionari».
«Si sbaglia chi afferma, con piacere o con disgusto, che sono passati alla destra. La verità è che si preoccupano per la sopravvivenza della comunità storica in cui assume un senso e può svilupparsi il grande scontro tra destra e sinistra».
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