La foiba grande di Sgorlon per (ri)scoprire la verità

Nel 1992, il romanzo dello scrittore friulano toccava un tema ancora tabù. Con coraggio

La foiba grande di Sgorlon per (ri)scoprire la verità

Nel 1992, Carlo Sgorlon pubblicava il romanzo La foiba grande. Come nota lo storico Gianni Oliva nella Postfazione alla nuova edizione Mondadori, all'epoca «le vicende del confine nordorientale sono ancora una storia negata: di foibe e di esodo si parla a Trieste e nelle comunità di profughi istriani e dalmati sparsi in Italia, ma non nei manuali di scuola». Nel 1996, Gianfranco Fini e Luciano Violante affrontano il problema, con notevole risonanza, all'università di Trieste. Nel 2004, il confronto porta il Parlamento a votare, con larghissima maggioranza, la legge che istituisce il Giorno del ricordo delle vittime delle foibe e dell'esodo, fissato al 10 febbraio (data in cui, nel 1947, è stato firmato il trattato di pace che ha assegnato l'Istria alla Jugoslavia). Da allora, purtroppo, si nota qualche passo indietro e un desiderio malcelato di ridimensionare la tragedia vissuta dagli italiani d'Istria e Dalmazia. L'ideologia non ha ancora finito di produrre danni e di accecare chi vuole essere accecato. Per tutti gli altri, oltre ai libri di storia, c'è il libro di storia scolpito nelle città e nelle campagne di quella zona martoriata. Fare un giro a Basovizza vale forse più di mille pagine di manuale o articoli di giornale.

Poi ci sono le testimonianze degli scrittori. Pier Antonio Quarantotti Gambini ha raccontato lo straniante ritorno a Capodistria dopo la guerra. La città è immutata. A parte i cittadini: al posto degli italiani ci sono gli slavi. Enzo Bettiza ha descritto come pochi altri il passaggio della Dalmazia alla Jugoslavia. Pagine di crudeltà allucinante sono raccolte nella memorialistica famigliare di Nicolò Luxardo De Franchi. Ci fermiamo qua. Ma solo per tornare a Sgorlon. Lo scrittore friulano (1930-2009) era in possesso di una propria poetica narrativa talmente controcorrente da essere consapevolmente ignorata in certi ambienti letterari. Capace di fondere il fiabesco con la storia, il mito con i fatti, Sgorlon ha narrato migrazioni epiche, l'eccidio di Porzus e appunto le foibe.

La foiba grande si apre alla Sgorlon. Per spiegare al lettore come si è formata la società multietnica istriana, si parte dal XVII secolo. Sgorlon dipinge un affresco terribile e affascinante della peste nera. Prima l'Istria è spopolata dalla malattia, poi ripopolata dai superstiti ma anche da giovani slavi invitati dalla Serenissima con la promessa di terre da coltivare. In quella Istria non ha molto senso la distinzione tra italiani e slavi. L'integrazione è rapida. Gli slavi venuti dal contado sulla costa si integrano rapidamente e Venezia concede un'autonomia che consente a tutti di sentirsi cittadini a pari titolo. Quando l'Impero austro-ungarico prende il posto della Serenissima, poco cambia per l'Istria, che continua a essere un impasto di etnie diverse nel contesto di un impero a vocazione «multiculturale» ante litteram. Il passaggio all'Italia è visto con simpatia ma anche con qualche diffidenza reciproca. I tempi stanno per cambiare. L'equilibrio secolare si rivela più fragile del previsto. I nazionalismi agitano anche Umizza, il paese di Benedetto Polo, tornato dagli Stati Uniti in tempo per vedere la rovina della sua terra natia. I fascisti agitano il sentimento anti-slavo ma gli slavi non sono da meno. Un po' alla volta, e poi tutto d'un colpo, gli italiani si riscoprono italiani e gli sloveni si riscoprono sloveni. Umizza si trova divisa. Gli uomini di buona volontà nulla possono contro il montare dell'odio. A nulla valgono i tentativi di andare oltre ogni divisione.

Gli ultimi capitoli descrivono un mondo di ombre. Nella Umizza ormai jugoslava, gli italiani che si rifiutano di partire spariscono nel nulla. È pulizia etnica: «Più veniva avanti e si condensava la voce degli scomparsi gettati nelle foibe, più l'esodo si allargava, perché ormai la sua febbre aveva toccato tutta la gente istriana, ed era la fuga di un popolo intero».

Sgorlon offre una chiave di lettura che va oltre la politica. Per lo scrittore, l'appartenenza a un popolo è qualcosa di ancestrale, una sorta di memoria inconscia delle vicende dei propri antenati. Il fascismo e il comunismo sono importanti, certo. Ma non spiegano tutto. Scrive Sgorlon: «Era in atto un genocidio, e chi non voleva entrare nel fiume dell'esodo, sgombrando il campo agli occupanti, veniva fatto sparire. Non v'era più scampo per gli istriani dissidenti.

Il comunismo non c'entrava per niente, era soltanto la faccia deforme di un feroce nazionalismo di contadini affamati di terra».

Per Sgorlon, gli aguzzini agiscono in preda ai deliri e agli incubi della storia. Al risveglio non credono a quello che hanno fatto e negano l'orrore. Che invece, ormai dovremmo saperlo, è reale.

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