Barbara SilbeGuardando la sua mostra ti viene in mente l'Antico Testamento, ma anche l'approccio al racconto che fu tipico di Ernest Hemingway, Eric Maria Remarque o Emilio Lussu, scrittori che fecero del genere memorialistico la loro punta di diamantate.
James Nachtwey è un fotografo di quelli che nascono ogni cento anni, di quelli che per fare il loro lavoro devono essere davanti alle scene che portano fino a noi. Robert Capa, di cui Nachtwey è considerato l'erede più diretto, diceva: «Se le tue foto non sono abbastanza buone, vuol dire che non sei abbastanza vicino». Libano, El Salvador, Gaza, Iraq, Afganistan, Somalia, Indonesia, Filippine, Sudan, Rwanda, Bosnia, Darfur, Cecenia, 11 settembre... Nachtwey, nato a Syracuse nel 1948, si è votato al racconto del dolore, della violenza, della fame e della morte che genera una guerra, e lo fa ancora oggi, a quasi settant'anni, affidandosi a una compostezza formale che trasforma il fotogiornalismo in poesia. L'arte e la bellezza sono il suo strumento di lotta contro le ferite che l'uomo causa ad altri uomini. Combatte a modo suo cause e conseguenze di ogni azione violenta e dice: «Ho voluto diventare fotografo per essere un fotografo di guerra. Ma ero guidato dalla convinzione che una fotografia che riveli il volto vero della guerra sia, quasi per definizione, una fotografia contro la guerra».
Algido, lo sguardo altrove che porta il peso di quanto vissuto, perfino intimorito dalla folla che aveva di fronte alla conferenza stampa di inaugurazione di Memoria, antologica alla prima tappa internazionale che è ospitata a Palazzo Reale di Milano fino al 4 marzo, è stato però capace di trasformare momenti di furore e caos nell'immobilità fatta di silenzio dei suoi istanti congelati. Ogni inquadratura è uno sguardo potente, un'analisi lucida, il suo obiettivo uno strumento di riflessione donato a ognuno di noi. È un uomo etico, di pace, un professionista che per il desiderio di questa pace ha più volte rischiato in prima persona con una dedizione senza limiti per il lavoro e una responsabilità che ci fa comprendere per quale motivo certe fotografie vadano oggi mostrate a tutti.
Nachtwey è cresciuto negli anni Settanta negli Stati Uniti. I suoi occhi di ragazzino si sono fermati sulle immagini della guerra del Vietnam e delle marce per i diritti civili. «A quei tempi - ricorda l'autore - i politici ci raccontavano una cosa e i fotografi ne mostravano un'altra. Io credevo ai fotografi, come milioni di americani». Già allora comprese la necessità di essere un testimone contro la nostra arroganza. «Non sono un uomo di parole, parlano per me le mie fotografie - ha detto timidamente -. Questo è un viaggio dentro la mia memoria e dentro la storia contemporanea, dove le immagini sono la memoria di tutti perché ci permettono di essere testimoni insieme. La gente soffre per le ingiustizie. Visitando l'esposizione voi vi chiederete perché. Riguardando il mio lavoro, io torno in contatto con ogni soggetto ritratto attraverso la descrizione di questi eventi tragici, rivivo le loro storie. Dobbiamo continuare a ricordare le cause scatenanti di ogni guerra e a chiederci il perché».
Membro dell'agenzia Magnum Photos dal 1986 al 2001, Nachtwey la lasciò poi per fondare, insieme ad altri colleghi, l'altrettanto celebre agenzia VII. Nei suoi 40 anni di carriera ha collezionato un'infinità di premi internazionali, tra cui la Robert Capa Gold Medal e ben 25 riconoscimenti dal World Press Photo, il più importante e ambito contest mondiale dedicato al fotogiornalismo.
«Memoria», a
cura di Roberto Koch e dello stesso James Nachtwey, è promossa e prodotta dal Comune di Milano - Cultura, Palazzo Reale, Civita, Contrasto e GAmm Giunti. Fino al 4 marzo. Info e orari: 199151121, www.palazzorealemilano.it.
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.