L'Italia a due velocità, gli anticorpi politici mai fatti ai batteri di una malattia ultracentenaria, il successo inspiegabile di maneggi e congiure: avrebbero ricevuto un duro colpo, forse, se l'impresa dei Mille avesse avuto diverso esito. Per capirlo vale la pena ripartire proprio dal racconto di quello sbarco. Ci ha provato il giornalista e scrittore Alfio Caruso in Garibaldi, corruzione e tradimento. Così crollò il Regno delle Due Sicilie (Neri Pozza, pagg. 316, ebook disponibile a euro 9,99, cartaceo euro 18 in uscita il 21 maggio).
Il tentativo qui - perfettamente riuscito dal punto di vista del contenuto e anche della forma, cristallina per chiarezza e tono - è quello di raccontare la spedizione dei Mille, al suo 160º anniversario, «vista dai due lati della barricata», per bilanciare la storia scritta dai vincitori con una gustosa «versione borbonica» dei fatti: «L'impresa dei Mille è forse l'episodio fondante dell'Unità d'Italia», ci spiega Caruso, catanese classe 1950. «Cavour capì che gli italiani andavano fatti anche se non sapeva nemmeno come erano fatti e lo sbarco in Sicilia gli consente di puntare all'intera penisola. Episodio fondante, sì, e tuttavia da sempre e ancora avvolto da scetticismo, oltre che da mistero, perché stiamo parlando di mille ragazzi, pochi dei quali avvezzi alle vicende militari, armati in maniera discutibile. Pochi che riuscirono comunque a impossessarsi di un Regno dove l'esercito contava su 90mila uomini. Come poté avvenire e soprattutto che cosa accadeva nel frattempo nel gustosissimo dietro le quinte? È questo che ho cercato di rievocare». A testi divenuti ormai classici, come Noterelle di uno dei Mille. Da Quarto al Volturno di Giuseppe Cesare Abba, I Mille. Da Genova a Capua di Giuseppe Bandi o la ricostruzione di George Macaulay Trevelyan, Garibaldi e i Mille, Caruso contrappone un resoconto pressoché sconosciuto: Un viaggio da Boccadifalco a Gaeta, di padre Giuseppe Buttà, e su questo fonda le novità della sua «ricostruzione borbonica».
«Cappellano di quel 9º battaglione cacciatori comandato dal colonnello Bosco, che con valore si batté contro garibaldini e piemontesi... da Palermo a Gaeta, padre Buttà vide tanti e così eclatanti esempi che inettitudine e avidità non bastano, nemmeno oggi, a spiegare»: così raccontava Leonardo Sciascia con ammirazione nel saggio Garibaldi e il padre Buttà, parlando di un uomo che, nato a Naro, provincia di Messina, nel 1826, nemico giurato del liberalismo, resterà fedele a Francesco II fino all'ultimo giorno. Da quell'osservatorio privilegiato, Buttà visse in prima linea gli episodi cruciali che condussero alla dissoluzione del Regno: «Ne sono venuto a conoscenza - dice Caruso - grazie a un lettore: il libro è sparito dalla circolazione ma rimane un punto di vista originale. Buttà è molto più borbonico di Francesco II, è acceso da un anti-italianismo sparato e da avversione totale nei confronti dei garibaldini. Il racconto è pieno di pettegolezzi, dettagli, voci, dissidi e tradimenti, soprattutto. Quei tradimenti che resero possibile che mille sbandati - come li chiamavano i Borboni - mille farabutti potessero impossessarsi del regno più ampio della penisola italiana, le Due Sicilie».
Generali ultrasettantenni, che avevano perso ogni voglia di rischiare, i maneggi dei fratellastri di Francesco che tentano di scalzarlo, i soldi di Cavour che corrono a fiotti, nel suo libro Caruso non ci risparmia nessuno degli aneddoti più paradossali: «E poi le riverenze verso l'ambasciatore sabaudo a Napoli, perché mentre la guerriglia di Garibaldi avanza i diplomatici continuano a trattare sul modo migliori di accordarsi. E Francesco, che si fida, e fa sempre la figura dello scemo. Per non dire dello stesso incontro di Buttà a Milazzo con Garibaldi, che vuole arruolarlo coi Mille: Buttà fa finta di aderire ma alla prima occasione scappa e se ne torna dai Borboni».
Una controcronaca, dunque, che Caruso inquadra anche per il peso avuto, oltre che nel dare uno Stato ai Savoia, nella divisione mai sanata tra Nord e Sud: «Se i Savoia e Cavour avessero lasciato mano libera all'amore per Garibaldi, che fu accolto a Palermo come una novella Santa Rosalia, probabilmente tante divisioni non sarebbero sorte. Garibaldi aveva il carisma necessario per far digerire tante soluzioni antipatiche: era un figlio del popolo e il popolo lo sentiva suo. Nella parte finale le operazioni vennero lasciate a Cialdini e Fanti, due generali cui il razzismo scappava dalla pelle e che coi loro comportamenti diedero giustificazione al brigantaggio. Una promessa tradita verso le classi meno abbienti che avevano sperato che l'arrivo di Garibaldi coincidesse con il miglioramento della loro situazione e con la distribuzione delle terre».
Se Garibaldi avesse trionfato, o ancora se il Regno delle Due Sicilie non fosse mai stato preso: questi esercizi di immaginazione, oggi tanto in uso per le figure di Hitler e Mussolini, si possono forse tentare anche qui, specie in riferimento a una ricostruzione che tiene conto di vincitori e vinti: «Nel primo caso, con Garibaldi al comando, avremmo avuto un'Italia forse meno settaria da tutti e due i lati, meno segnata dai privilegiati», immagina Caruso. «Forse non saremmo entrati nella prima guerra mondiale come voleva Giolitti. E se non fossimo entrati in guerra non ci sarebbe stato il fascismo. Forse saremmo ancora una monarchia, ma con Vittorio Emanuele IV e non so se ci guadagneremmo. Certo è invece che il Regno delle Due Sicilie era destinato a implodere: condizioni economiche miserrime, diabete già una pandemia, rivolte fatte solo per denaro.
E i Florio che non erano gli Agnelli: hanno sfavillato per un paio di decenni, sono sprofondati alle prime vere difficoltà. L'unico che ci ha perso davvero è Francesco II: poteva, per diritti dinastici, ambire a Torino ben più di Vittorio Emanuele II».
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