Festeggiamo giustamente il duecentesimo genetliaco di Giuseppe Verdi, ricordando che fu un uomo refrattario a celebrazioni e ricorrenze, soprattutto pubbliche: da Vegliardo si ebbe premura di non ricordargli il compleanno con inopportuni auguri. Verdi ben sapeva quanto era stato duro il cammino per arrivare alla sua meritata e alta reputazione, e quanto i laudatori del momento approfittassero per farsene lustro proprio. Si guadagnò così fama di orso e lui stesso si definiva un cane alla catena, legato al governo delle sue vaste proprietà, estese intorno alla villa di S. Agata, nell'agro piacentino, ad un tiro di schioppo da Cremona, con buona pace dei suoi non molto amati concittadini bussetani, che oggi si fregiano orgogliosamente, come nella ducale Parma, del nome del più illustre figlio della Bassa parmense. Infatti, ad «aquila di Busseto» Verdi preferiva «contadino delle Roncole» (allora e oggi frazione di Busseto).
Figlio di contadini, non dimenticò mai la dignità delle sue umili origini, dedicandosi con caparbietà alla cura della terra e alle condizioni di chi la lavorava. Non era una posa, ma un intimo sentire. Uno dei sommi colleghi dei suo tempo, Johannes Brahms, allora depositario della sublime tradizione sinfonica e cameristica austro-tedesca, sceso da Vienna ad ammirare i capolavori del Correggio a Parma, volle vedere dove viveva il celebre musicista italiano. Ebbe il pudore e la delicatezza di rimanere incognito, ma raccolse con sincera ammirazione informazioni sul parco stile di vita del Maestro e sulle sue infallibili competenze di agronomo ed esperto zootecnico. Verdi si imbronciava con chiunque mettesse in discussione non le sue opere musicali, ma quelle pratiche, definendosi con il termine dialettale di magütt, termine milanese che si può tradurre con il poco pittoresco «manovale». Nel corso degli anni il magütt che sfornava capolavori che raccoglievano entusiasmo nei dotti paesi tedeschi (soprattutto a partire dalla Messa da Requiem), detestò vieppiù qualunque manifestazione esteriore. Alle condoglianze preferiva il silenzio: «la parola stempera, snerva, e distrugge il sentimento! Tutte le esteriorità hanno qualche cosa di poco sentito, e sono una profanazione».
Le sue parole, invece, come la sua musica, corrono vivide e dritte, come nei celebri Copialettere - una silloge epistolare che Verdi stesso conservò e che si legge come un'autobiografia. Chi voglia approfondire la vita quotidiana di Verdi non perda i carteggi pubblicati dall'Istituto di Studi Verdiani di Parma. Se preferisce una scelta, si raccomandano le Lettere edite nei prestigiosi «Millenni» Einaudi e annotate per curatela di uno dei più raffinati conoscitori verdiani, Eduardo Rescigno. In tutte rifulge la grandezza omerica dell'uomo Verdi. Lucido anche in politica. Patriota ardente, poi disilluso dall'Italia umbertina, Verdi deplorava l'oblio dei sacrifici del Risorgimento. Ad un'amica che aveva perso il fratello, milanese morto per la Repubblica Romana, scriveva: «Crede Ella ancora alla riconoscenza?!!! La riconoscenza è un peso anche per gli individui: s'immagini se possono sentirla gli uomini di governo e meno ancora la folla di affaristi che popolano Montecitorio».
Verdi ebbe sempre fama di carattere difficile. Lui stesso disse una volta che «la fodera è diventata abito», non vi è verso di sbarazzarsene. Riconosceva di non essere mai stato vanitoso, solo orgoglioso. In vecchiaia spazzò via tutto: «Non ne vale la pena». Detrattori tra i cosiddetti «sapienti» non mancarono. Da giovane gli rimproveravano di non essere Rossini. Carlo Dossi nelle Note azzurre riporta un'opinione che allora faceva testo, quella dello scrittore Giuseppe Rovani. Pur lodando alcune melodie diceva: «se ghe sent semper dent la vanga» (si sente sempre dentro la vanga) e faceva «l'atto col piede, di vangare». Il Verdi «villano» non piacque nemmeno agli adepti dell'Arte dell'avvenire, che gli rimproveravano di non essere Wagner. A mettere le cose a posto si dovette attendere il secolo Ventesimo, le esecuzioni esemplari di Arturo Toscanini che mostrò come l'ultimo Verdi fosse degno delle stesse cure rivolte a Wagner. La Germania espressionista si interessò per prima alle sue virili opere giovanili (I masnadieri, Macbeth, Luisa Miller) mentre iniziava l'azione critica di valorosi studiosi (Carlo Gatti, Gino Roncaglia, Massimo Mila) e vedeva la luce l'antesignano romanzo di Franz Werfel (Verdi, 1924).
Con la monumentale lettura delle opere di Julian Budden, le indagini e le analisi di Marcello Conati, i saggi di Gilles De Van, hanno trovato piena considerazione opere superficialmente etichettate come troppo legate alla temperie storica o non pienamente mature, I Lombardi alla prima crociata, Giovanna d'Arco, La battaglia di Legnano, Attila, Luisa Miller. Un evo nuovo si è aperto col varo dell'edizione critica dell'opera omnia presso la University of Chicago Press, guidata da Philip Gossett. In parallelo hanno visto la luce esecuzioni integrali e rigorose, in cui un posto speciale merita Riccardo Muti che ama Verdi con inflessibile passione e ne dirige da par suo tanti titoli, non solo i capolavori più noti.
Se il destino di un uomo è il suo carattere - secondo la definizione di Winston Churchill - quello di Verdi fu capace di compiere, in mezzo secolo, un percorso unico: dall'acerba irruenza dell'Oberto al sublime sorriso del Falstaff.
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