È il film più personale, più semplice, più comico e, forse anche per questo, più sorprendente di Paolo Sorrentino, premio Oscar per La grande bellezza che, con È stata la mano di Dio, ritenta il percorso hollywoodiano grazie alla designazione come candidato per l'Italia per il migliore film internazionale. Dovremo attendere il 21 dicembre per sapere se il film, presentato in concorso al festival di Venezia dove ha ottenuto il Gran Premio della Giuria, entrerà nella prima quindicina di titoli - ma tutto fa pensare che ce la farà - che diventeranno poi 5 con l'annuncio delle nomination l'8 febbraio: «Oggi - racconta il regista che ha presentato il film, in uscita al cinema il 24 novembre in 250 schermi prima di andare su Netflix il 15 dicembre, all'ombra del suo Vesuvio - ho un po' più di consapevolezza e ho capito come funziona. Occorre che un notevole numero di variabili coincidano. È un percorso lungo e complicato».
È indubbio però che È stata la mano di Dio abbia tutte le carte in regola per emozionare anche un pubblico internazionale, dal momento che racconta in maniera magistrale, allo stesso tempo, l'essenza dell'essere napoletani, senza facili folclorismi neanche quando entra in campo il mito di Maradona, e una storia universale come quella della perdita dei genitori. Il film ruota infatti tutto intorno all'improvvisa scomparsa, quando Sorrentino aveva 16 anni, dei suoi genitori per una fuga di monossido di carbonio nella casetta che avevano appena arredato nella montagna di Roccaraso. Prima di arrivare a questo tragico momento, il regista, nato a Napoli nel 1970, cresciuto al Vomero prima di trasferirsi a Roma e tornato con un film nella sua città, vent'anni dopo il suo esordio con L'uomo in più, mette in scena il racconto della propria famiglia raggiungendo apici di comicità come mai prima d'ora nel suo cinema. Una famiglia allargata che oltre a lui, interpretato in maniera sorprendente da Filippo Scotti, non a caso premio Mastroianni come migliore attore emergente a Venezia, vede il fratello (Marlon Joubert), la sorella perennemente chiusa in bagno (Rossella Di Lucca), i genitori con il padre Saverio (Toni Servillo) che lavora in banca e che ha in casa una litografia di Guttuso «uno dei nostri» perché, dice, «noi siamo comunisti e siamo onesti a livello interiore» e la madre Maria, scherzosa casalinga (una bravissima Teresa Saponangelo). C'è poi la baronessa un po' in rovina (Betti Pedrazzi) che abita al piano di sopra e la figura destabilizzante della zia Patrizia, sensuale e sensibile, con problemi di salute mentale perché non riesce ad avere figli e infatti incontra San Gennaro e anche la figura mitica del folclore napoletano del munaciello, interpretata da una statuaria Luisa Ranieri, la quale si concede esuberante anche in una scena di nudo. Ma ci sono anche tantissimi altri parenti a cui la penna di Sorrentino regala almeno una battuta folgorante, come nella sequenza di un pranzo tutto parenti e serpenti che è una delle pagine più straordinarie di commedia nel nostro cinema.
Ma la vita familiare, proprio come quella dell'intera città, è segnata dalle notizie dell'arrivo al Napoli di Diego Armando Maradona. Il film si apre con l'esergo del «più grande calciatore di tutti i tempi»: «Ho fatto quello che ho potuto, non credo di essere andato così male». Siamo a metà anni '80 e l'epocale matrimonio tra il calciatore argentino e un intero popolo ha del miracoloso, tanto che, proprio per andare a vedere il suo paladino allo stadio, il protagonista e alter ego del regista non va con i genitori in montagna, finendo così per scampare alla morte. Lo zio pensa al miracolo, esattamente come la Mano de Dios del famoso gol di Maradona contro l'Inghilterra che però, dice, è anche «un atto rivoluzionario contro la guerra delle Malvinas». «Sono molto emozionato di presentare il film a Napoli dove può essere compreso in tutte le sue sfumature. È un po' come partecipare al mio matrimonio», dice il regista che, a proposito dei genitori, aggiunge: «Parlare sempre di questo film, in questi mesi, sta facendo diventare quotidiano il dolore, addirittura anche noioso. Penso che sia un ottimo rimedio annoiarsi dei propri dolori, serve anche a non pensarci più».
Precisa e minuziosa la ricostruzione degli anni '80, con i mobili marinari nelle camerette dei ragazzi, i telefoni con la ghiera tenuti sui piedistalli, il televisore senza telecomando perché «siamo comunisti», al contrario di quello della baronessa che ce l'ha, i tartufi Algida, le cuffie del Walkman, la vhs di C'era una volta in America che il figlio non riuscirà mai a vedere con il padre: «Sono tornato a girare - racconta Sorrentino che è anche produttore del film con Lorenzo Mieli per The Apartment - nei posti in cui vivevo. C'è la mia casa anche se esattamente un piano sotto, la scuola e i luoghi che verso i 17-18 anni ho conosciuto».
Ma il film è anche un romanzo di formazione, quella del giovane regista che, dopo la morte dei genitori, deve trovare la sua strada. Lo aiuterà l'incontro con uno dei maestri del cinema napoletano, Antonio Capuano: «Il film - spiega il regista - contiene sempre, nonostante gli ostacoli, una idea di futuro. La mia speranza è che un ragazzo non abdichi mai a un'idea di futuro perché deve sapere che c'è sempre».
Un altro degli insegnamenti è che ci vuole molta perseveranza nella vita e Sorrentino andava a scocciare i registi uno a uno, tanto che in una mostra a Roma su Massimo Troisi di due anni fa era spuntata una sua lettera dattiloscritta in cui nel 1991, ventunenne studente di Economia e Commercio, chiedeva di essere preso come aiuto regista. Non successe, ciononostante oggi il regista dice che, in È stata la mano di Dio, l'unico riferimento cinematografico è proprio Troisi, «il mio solo nume tutelare».
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