Un lacchè - affascinante, per carità - ha ammazzato un'intera letteratura. Bello, alsaziano, tonto, militare innocuo, seduttore impenitente, Georges-Charles d'Anthès capitò in Russia dopo la «Rivoluzione di luglio» del 1830; riuscì a farsi adottare dal Barone von Heeckeren, plenipotenziario d'Olanda, ricchissimo. Avido di donne e di pettegolezzi, fu lui, d'Anthès, a uccidere Aleksandr Pukin, in duello, il 10 febbraio del 1837: gli squarciò lo stomaco, gli aveva dato del cornuto, aveva compiuto 25 anni qualche giorno prima. Corteggiava - con l'ardore del gioco, come usava - Natal'ja Goncarova, la bellissima moglie del poeta, desiderata da stuoli di ammiratori, tra cui va conteggiato anche lo zar. Pare che Pukin, in punto di morte, abbia perdonato il suo avversario; lui, d'Anthès, fu messo sotto arresto - la pratica del duello era illegale - e cacciato dall'impero. Visse, robusto, ricco, fino al 1895; eletto all'Assemblea Costituente, diventò senatore. Mérimée, nel 1861, ricorda così «quello che ha ucciso Pukin»: ottimo politico, dal piglio veemente, «di complessione atletica, l'aspetto severo ma raffinato, molto scaltro... era del tutto soddisfatto del proprio destino, e in seguito disse più di una volta che solo al fatto di aver dovuto abbandonare la Russia a causa del duello doveva la sua brillante carriera politica». Pukin spirò come Lenskij, uno dei personaggi del suo immenso romanzo in versi, Evgenij Onegin: «Voi compiangete, amici, Lenskij:/ poeta di radiose attese,/ senza portarle a compimento».
In realtà, morto a 37 anni, Pukin, alieno assoluto, il Big Bang della letteratura russa, rivoluzionario e neoclassico, volitivo e contemplativo, straniero al mondo (il bisnonno, Abram Petrovic Gannibal, era «il negro di Pietro il Grande», un eritreo riscattato e vissuto nella corte dello zar), aveva fatto di tutto. Di fatto, dal nulla russo Pukin ha inventato la prosa moderna - La dama di picche, La figlia del capitano -, l'epos poetico - che meraviglia Il cavaliere di bronzo -, l'estro teatrale - Boris Godunov, Il convitato di pietra -, la fiaba in rima. Stilista eccelso, con Il viaggio ad Arzrum si dimostra eccellente narratore di vagabondaggi (più prossimo a Bruce Chatwin che agli annoiati redattori dei Grand Tour). L'Evgenij Onegin è l'apice, il capolavoro seminale e capitale della letteratura russa, album di scene e di personaggi indimenticabili, manuale filosofico («Dedito a svaghi, i più innocenti,/ erro su un lago desolato/ ed il far niente è la mia legge»).
Per questo, la versione curata per Mondadori (pagg. 440, euro 12) da Giuseppe Ghini - che qui abbiamo interpellato - è un piccolo caso editoriale. Rispetto ad altre traduzioni, più o meno notevoli - Ettore Lo Gatto, Eridano Bazzarelli, Giovanni Giudici, Pia Pera - qui si predilige il senso del ritmo, la radiosità verbale, rapinosa. Nabokov ne era incantato: lo tradusse in inglese nel 1964, con 1200 pagine e passa di note in allegato; ne venne fuori un mostro. Per Dostoevskij, è semplicemente la bibbia russa, il libro-mondo dove «s'incarna l'autentica vita russa con tale forza creativa e tale perfezione, mai esistita prima di Pukin e, probabilmente, dopo di lui». Tutta la grande letteratura russa dipende dall'Evgenij Onegin di Pukin, è tutta, in qualche magica forma, prevista in quella formula lirica: ma come è possibile, in che modo? «Pukin - spiega Ghini - disegna personaggi che diventano modelli con cui un russo colto non può non confrontarsi. Questo è vero soprattutto per tutto il periodo - fino al 1905 - in cui in Russia praticamente non esiste altro che la letteratura: impedita ogni altra forma di riflessione pubblica - filosofica, sociologica, politica - la letteratura e la critica letteraria diventano tutto, e gli scrittori sono pensatori nel senso più ampio. Per esempio, Onegin incarna, con i suoi pro e i suoi contro, la figura dell'uomo superfluo nella particolare realizzazione che assume al tempo della servitù della gleba: però il tema della distanza tra potere e cultura, la responsabilità dell'intellettuale engagé o dedito all'otium, sono questioni non aggirabili. Molto concretamente, leggendo la letteratura russa ti accorgi che spesso risuonano parole dell'Evgenij Onegin, che alcuni personaggi disputano con gli eroi del romanzo di Pukin».
L'opera ha avuto traduzioni celebri, celebrate. Ghini ha risolto la questione in modo estremo. «Ho rinunciato - prosegue - alla rima, che secondo me suona oggi in Italia infantile o arcaica, poetica in un senso che allontana. Ho deciso di mantenere le altre caratteristiche formali, prima tra tutte il ritmo. Ma non vorrei mettermi a parlare di giambi. Vorrei invece dire ai lettori: Provate a leggere. Se vi sentite catturati dal ritmo, be', allora vuol dire che non ho fallito».
Gli chiediamo di estrarre un distico, una porzione di versi a suo avviso esemplari, e di spiegarci perché. «Non estraggo un distico, ma rimando all'intera Lettera di Tat'jana a Onegin, Terzo capitolo. Nella letteratura italiana non esiste una simile espressione d'amore dignitosa e appassionata, senza speranza ma piena di speranza, l'espressione di una ragazza confinata nella provincia che non può non innamorarsi dell'uomo brillante che viene dalla capitale, un uragano di novità, di vita, di futuro, di pienezza. In Russia la devono imparare a memoria nel programma delle scuole medie e internet è pieno di registrazioni di ragazze russe che la interpretano... Ecco il distico iniziale: Vi scrivo. Che altro posso fare?/ Cos'altro ancora posso dirvi?...».
Ma qual è la visione del mondo di Onegin e la morale del poema? E fino a che punto Evgenij Onegin è Alexandr Puskin? «È un romanzo, non un poema. E questo impedisce di dire quale sia la morale, rimanda a una storia che si interrompe bruscamente e di cui non conosciamo la fine. Ed è molto di più il romanzo di Evgenij e di Tat'jana che non un semplice Onegin.
Come uomo e come poeta Pukin è cresciuto immensamente negli otto anni che ha dedicato alla scrittura dell'Evgenij Onegin: ha abbandonato la poetica byroniana ed è diventato il poeta che ha fondato il realismo russo. Però non è cresciuto tanto da evitare di morire come Lenskij, costretto dalla morale sociale a sfidare a duello un avversario ben più esperto per difendere la buona fama della donna amata».
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