Più che un racconto, A sua immagine, di Jérôme Ferrari (edizioni e/o, traduzione dal francese di Alberto Bracci Testasecca, 186 pagine, 16 euro) è una meditazione sulla cosiddetta fotografia di guerra, il confine fra la cronaca di un istante e la sua possibile dimensione artistica, l'attualità che si fa storia, la storia che riscatta e depura la tragedia che in quel particolare momento finì davanti l'obiettivo.
È la riflessione che si impone a uno dei protagonisti del libro, sacerdote e padrino di battesimo, in quanto zio, di Antonia, la giovane fotografa che ha a lungo sognato di fare la reporter di guerra, ha coronato il suo sogno, ma lo ha visto tramutarsi in incubo, è passata a immortalare matrimoni e ora è lì, nella bara, vittima di un banale incidente stradale.
Del perché abbia smesso, Antonia non ha mai parlato, se non per frasi monche: «Non è vero che sembra un film», la guerra come Apocalypse Now, la musica dei Doors e tutto il resto. «So che certe cose devono restare nascoste», «ci sono tanti modi di dimostrarsi osceni», «la cosa pazzesca è che a tutti piace questa situazione, la adorano, e io pure»... E insomma, ci si indigna e poi però si distoglie lo sguardo, si cerca lo shock, ma si specula sull'orrore, si insegue la denuncia, ma una volta raggiuntala la si archivia e si passa oltre, una specie di raccapricciante raccolta di trofei del male...
Mentre celebra la sua messa per la povera parente defunta, il sacerdote pensa che «sì, le immagini sono porte aperte sull'eternità. La fotografia però non dice niente dell'eternità, si compiace dell'effimero, attesta l'irreversibilità e rimanda tutto al nulla». Se all'epoca di Gesù fosse esistita la fotografia, pensa ancora, il cristianesimo non si sarebbe sviluppato, «o tutt'al più sarebbe stato soltanto un'atroce religione della disperazione». È qui che, forse, c'è lo scarto fra la fotografia e la pittura: «Le più realistiche rappresentazioni pittoriche della Crocefissione lasciano sempre intravedere tra le ferite della carne martoriata, come in negativo, il miracolo della resurrezione. Se fosse esistita una fotografia della morte di Cristo, non avrebbe mostrato altro che un cadavere straziato consegnato alla morte eterna. Sulle foto anche i vivi sono trasformati in cadaveri, perché ogni volta che si attiva l'otturatore la morte è già passata». Il Che Guevara sdraiato sul tavolo dell'obitorio boliviano ha la stessa postura del Cristo del Mantegna, ma il secondo rimanda a un'estetica e insieme a un'etica, il primo sprofonda nell'orrore del niente, la brutalità sterile della morte.
Costruito su più piani storici, un po' sulla falsariga di quel Sermone sulla caduta di Roma che anni fa valse al suo autore il Goncourt, A sua immagine si muove all'interno di un territorio che Jérôme Ferrari, parigino di origine corsa, conosce bene, la Corsica, appunto, e il suo frusto quanto endemico nazionalismo-separatismo-indipendentismo, un tema che dall'Ottocento a oggi ancora tiene stancamente banco, con attentati che periodicamente lo riportano al centro dell'attenzione, regolamenti di conti, litigi e ripicche politico-amministrative, militanza che si fa routine politicante e presta il fianco ad accuse di connivenza con il nemico, quella Francia divenuta madrepatria, ma rimasta matrigna. Antonia, la ragazzina che vuole diventare fotografa, dentro quel mondo ci è cresciuta. Il suo ragazzo è uno dei tanti capi che l'indipendentismo corso sforna e poi di volta in volta brucia, attentati e latitanza, arresti e processi, detenzioni e rilasci, una catena infinita che si spezza solo quando, tiratotene alla fine fuori per stanchezza, disgusto, consapevolezza di un percorso sbagliato, resterai comunque vittima di una vendetta non prevista, i nuovi militanti che puniscono i vecchi per il solo fatto di non essere più dei loro...
Eppure, anche se ci vive in mezzo, oppure proprio perché ci vive in mezzo, Antonia vede questa tragedia come una farsa insulsa e sanguinosa, una sorta di guerra dei bottoni combattuta da bambini divenuti adolescenti poi uomini, che fra loro si conoscono, sono imparentati, vivono in uno stato di esaltazione che ha dalla sua solo la coazione a ripetere, una giostra impazzita che continua a girare. Come le sembra più vero un terremoto in Turchia, un'autobomba che esplode a Beirut, il conflitto che scoppia in quei Balcani separati dalla Corsica da due bracci di mare che sembrano rimandare a un destino comune. È convinta, Antonia, di essere «una vestale che mantiene accesa la fiaccola della verità» e che in quei luoghi dove tutto le sembra più vero «ci siano fotografi che rendevano visibile ciò che nessuno voleva vedere, non erano stupidamente sballottati tra l'insignificante e la menzogna, erano utili, coraggiosi e ostinati...».
Naturalmente, è tutto più complicato, specie quando hai a che fare con un mezzo meccanico e insieme con l'accorgerti che basta scegliere una parte in conflitto perché l'orrore, tutto l'orrore, venga di fatto scaricato su quella opposta, un racconto mirato, dove non è la verità la merce che più interessa. E se hai velleità artistiche, se cerchi la foto che oltre a essere vera, e quindi giusta, diventi per proprietà transitiva bella, ti accorgi che «non è come arte che la fotografia dà la misura della propria potenza. Il suo campo non è quello della bellezza eterna. La fotografia taglia lo scorrere del tempo come la Moira implacabile, ed è la sola che abbia il potere di farlo». Proprio per questo rimane un passo indietro rispetto al potere evocativo della parola scritta, alla sua capacità di far vedere il male e insieme di esorcizzarlo. In Kaputt, Curzio Malaparte racconta il prezioso regalo che il dirigente dello Stato indipendente di Croazia riceve dai suoi fedeli ustascia: «Un'insalatiera piena di occhi strappati. Sebbene non sia prudente prendere ciecamente per buona la sua testimonianza, non possiamo non ammirare il talento da lui dimostrato nel condensare la molteplicità di situazioni complesse in un'unica indimenticabile parabola».
Alla fine, Antonia, lo abbiamo detto, rinuncerà a fotografare la verità, che è poi «il disastro completo di cui è stata testimone. È un disastro che non vuole duplicare». Ma è proprio qui che il libro ha un cambio di passo, nel senso che, procedendo nella lettura, non è più tanto o solo la fotografia di guerra a essere l'oggetto del racconto, ma la guerra in sé, ovvero, e per certi versi, «il ricordo commovente dei delitti» che, proprio come un album fotografico, il Novecento ha finito per collezionare. «Per tutto il secolo che sta cominciando scatteranno foto delle loro vittime impiccate, abbattute o crocefisse, si metteranno loro stessi instancabilmente in posa sul bordo di una fossa piena di corpi nudi in Bielorussia, davanti a una fila di teste mozzate in Congo, nel campo di concentramento di Jasenovac, a fianco del prigioniero a cui si accingono a segare il collo. Si metterebbero in posa nello stesso modo davanti al monumento famoso, con un trofeo di caccia o semplicemente a una tavolata di amici...».
Solo che se il fascino nascosto della guerra risiedesse soltanto nell'orrore, resterebbe estraneo quanto incomprensibile tutto il resto, il cameratismo e il sacrificio, il gesto disinteressato, il gesto compassionevole e il gesto di coraggio, la resistenza sovrumana e l'amore per la vita, il gusto e il senso del pericolo, il ritagliarsi momenti di pura felicità...
Perché poi la guerra è complessa tanto quanto è complessa la vita, racconta sì ,come quest'ultima ,«l'ineluttabile disfatta degli uomini», ma contempla anch'essa il bene e il male, la paura e la menzogna, il peccato e la sua remissione, il miracolo persino di una resurrezione non dei corpi, ma dello spirito, un cambio di passo, un nuovo modo di pensare e di agire. Esecrarla vuol dire condannarsi a non comprenderla, fingere che lì l'umanità non abbia posto, concetto strano perché a combattere è il genere umano, e non un genere alieno.
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