La guerra del Partenone

Un libro ricostruisce il viaggio rocambolesco dei fregi verso l'Inghilterra. Fu un atto politico

La guerra del Partenone

La verità più brutale gliela gettò in faccia Lord Byron: «Senza naso porta a casa blocchi senza naso per mostrare quel che ha fatto il tempo e quel che ha fatto la malattia». L'oggetto di questa invettiva si chiamava Thomas Bruce, settimo conte di Elgin, e un ritratto di poco precedente la sua mutilazione ci mostra un aitante trentenne in abito militare, negligentemente appoggiato sulla propria sciabola, come fosse un bastone da passeggio, lo sguardo fiero di chi guarda lontano. È appena diventato ambasciatore d'Inghilterra a Costantinopoli, sogna la carriera politico-diplomatica che quella nomina comporterà, accarezza l'idea di metterla «al servizio dell'arte»: schedare, disegnare, ricopiare, riprodurre ciò che giace dimenticato in un Oriente che nella sua dimensione ottomana ha dentro di sé l'Occidente più classico, Atene, ovvero l'Acropoli, ovvero la Grecia, il Partenone, ovvero i suoi fregi, ovvero i suoi marmi. Ciò che verrà fuori da quel duplice sogno sarà il più grande saccheggio nella storia dell'arte che però, come una nemesi, s'abbatte sulla vita dello stesso saccheggiatore: non farà carriera, il suo matrimonio così come il suo patrimonio andranno in pezzi, una maschera gli coprirà per sempre il volto: gli è stata amputata la punta del naso, l'asma sofferta fin da bambino che l'Oriente ha trasformato in vesciche, perdite di sangue, salassi e corrosive ingestioni di mercurio

Lord Elgin è soltanto uno dei protagonisti del bel libro di Marta Boneschi Il naufragio del Mentor (Luiss, 268 pagine, 19 euro), una cavalcata vertiginosa nel cuore ottocentesco del Vecchio continente i cui battiti arrivano però fino a quello di oggi, identità nazionali e patrimonio culturale, egemonie e appropriazioni, musei a cielo aperto e musei come simbolo di potenza. Il sottotitolo del libro, «I marmi del Partenone e la guerra per il dominio dell'Europa», indica come la posta in gioco non riguardi tanto la storia dell'arte, quanto ciò che le ruota intorno, la sua universalità e insieme il fare parte di singole narrazioni, singoli Stati, singole nazioni.

Facciamo un passo indietro, meglio, un passo di lato all'interno del saggio della Boneschi: che cos'è la Grecia nel momento in cui Lord Elgin si accinge a depredarla convincendosi che sia il modo migliore di salvarla? In quegli stessi anni una risposta ce la dà Chateaubriand che, in vista del suo Itinerario da Parigi a Gerusalemme, la percorre cercando un'eco di ciò che è stata e non trovando altro che rovine risuonanti a vuoto, aggravate da una miseria che fa venir voglia di scappare: «Ebbene, ho visto la Grecia! Ho visitato Sparta, Argo, Micene, Corinto, Atene; bei nomi, ahimè, e nient'altro. Sempre più mi rendo conto che più si avanza nella vita, più si perde qualche illusione. Non guardate la Grecia, se non in Omero. È più sicuro».

Per uno che «avrebbe voluto morire con Leonida, e vivere con Pericle» si tratta di una delusione esistenziale. A Eleusi l'idea della devastazione del Tempo, della storia come relitto e/o come naufragio, del sentimento del Tempo che cerca di sopravvivere al Tempo stesso, è da lui resa con un artificio magistrale: la poesia dei grandi nomi scomparsi, della civiltà e delle rovine nasce dalla magia di una scena semplice, di un mercante di catrame che ignora il nome del re persiano che vide lì la sua sconfitta e addirittura quello antico del villaggio dove pure abita, una spiaggia deserta, un mare abbandonato dalle triremi di Temistocle e dove il rollio silenzioso di una barca da pesca fa capire che la gloria non abita più lì

La Grecia, insomma è, come puntualizza Marta Boneschi, «una terra derelitta divisa fra l'impero ottomano e vari potentati locali, agli albori della coscienza nazionale e impossibilitata a difendere i propri tesori». Icasticamente, uno storico come Gibbon ha racchiuso in un proverbio quella che allora è opinione di molti, se non di tutti: «Cattivo come un turco di Negroponte, come un ebreo di Salonicco, come un greco di Atene», tre identità diverse e però sullo stesso suolo

Lord Elgin dunque va situato all'interno di un'epoca in cui «si rafforza la convinzione che sia virtuoso salvare quelle reliquie di un tempo glorioso, ora abbandonate ai barbari, per traslocarle a casa propria». Si respira nell'aria una febbre antiquaria e del resto i primi musei nazionali sono nati da non più di mezzo secolo: il British Museum apre i battenti nel 1759, seguito dall'Ermitage di Pietroburgo e poi dal Louvre di Parigi L'appropriarsi dell'antica bellezza classica equivale, per i governi nazionali che li hanno voluti, a dichiararsi eredi di una civiltà illustre.

Ciò non toglie che nella spoliazione di Lord Elgin ci sia qualcosa di più della semplice febbre di rovine dei singoli collezionisti antiquari; e qualcosa di meno di chi si dà da fare per arricchire la propria nazione con un patrimonio altrui. È una sorta di hybris, di frenesia, di delirio di onnipotenza: decine di casse, migliaia di reperti, interi pezzi di architettura e di scultura smantellati e scalpellati. Anche qui, il solito Chateaubriand darà il giudizio più lucido: «È vero che i francesi hanno prelevato dall'Italia le sue statue e i suoi quadri, ma non hanno mutilato templi per divellere bassorilievi, essi hanno soltanto seguito l'esempio dei romani che spogliarono la Grecia dei capolavori e della statuaria». E ancora: «Lord Elgin ha voluto togliere i bassorilievi dal fregio: per poterlo fare, gli operai turchi hanno prima spezzato l'architrave e atterrato i capitelli; poi, invece di estrarre le metope dai loro alloggiamenti, i barbari hanno trovato più agevole frantumare la cornice».

Un merito Elgin però lo ha, mentre le sue navi come il Mentor affondano con le loro casse piene di reperti, poi fortunosamente recuperati, mentre altre navi di sua Maestà britannica si prestano malvolentieri a trasformarsi in carghi per far arrivare sana e salva in patria la sua collezione. È in quegli anni che, come un'inconscia reazione a quel saccheggio, l'antico lamento per una Grecia schiava e sottomessa si trasforma nel nuovo grido di battaglia per una Grecia libera e indipendente, che «la causa greca» diviene la causa per eccellenza della meglio gioventù europea, la causa che comprende e sublima le rivendicazioni libertarie e nazionali che la Santa Alleanza della restaurazione post-napoleonica si illude di reprimere. Il poeta che meglio la incarna è Byron, quel Lord Byron da cui siamo partiti e con cui terminiamo. La Grecia sarà per lui la liberazione dal mito di sé stesso, dal rischio di contemplare soltanto la propria decadenza. È Byron a fare, come nota Marta Boneschi, «della spoliazione del Partenone una giusta causa dell'umanità».

Nel pugno di anni che separano l'ultimo carico di Lord Elgin dal byroniano Pellegrinaggio del giovane Harold c'è il passaggio di un'epoca: «Le meraviglie dell'antichità classica sono sublimi, ma lì dove sono, nel loro contesto autentico. Le opere d'arte del passato costituiscono una parte integrante dell'identità dei greci e la loro nazione si costruisce anche grazie alla memoria del passato».

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