Guerra a tutte le guerre I libri choc di Aleksievic

Il Nobel racconta le storie di donne e bambini travolti dai crimini dei conflitti del Novecento

Guerra a tutte le guerre I libri choc di Aleksievic

Il censore: «Sono menzogne! Sporche calunnie dirette contro i nostri soldati che hanno liberato mezza Europa. Contro i nostri partigiani. Il nostro popolo di eroi. Non sappiamo che farcene della sua piccola storia, è della grande Storia che abbiamo bisogno. La storia della Vittoria. Lei non ama i nostri eroi! Lei non ama le nostre grandi idee. Le idee di Marx e Lenin». Svetlana Aleksievic: «È vero, non amo le grandi idee. Amo il piccolo uomo».

Una risposta da Nobel, quello della Letteratura che cerca, nella vita e nella voce delle persone «piccole», la verità dell'umanità, intera e singolare, generale eppure irriducibilmente individuale, allo stesso tempo. Una ricerca infaticabile: è noto come la scrittrice, nata in Ucraina nel '48 da padre bielorusso e madre ucraina e trasferitasi in Bielorussia fin da bambina, quando il padre militare fu smobilitato, impieghi anni (anche dieci) a raccogliere il materiale, cioè le «voci», le testimonianze, i racconti delle persone, del «popolo russo» che è il vero protagonista dei suoi libri. O meglio: la sofferenza del popolo russo, per il quale «il dolore è un'arte», e che è stata narrata in maniera così egregia proprio dai romanzieri russi. «Considero le sofferenze una suprema fonte d'informazione, direttamente legata al mistero. A quanto vi è di arcano nella vita. Tutta la letteratura russa ne è piena. Ci sono molte più pagine sulla sofferenza che non sull'amore. Ed è lo stesso nelle narrazioni delle mie interlocutrici...» scrive Aleksievic, e le sue «interlocutrici» sono le donne che hanno partecipato alla Seconda guerra mondiale, la Grande guerra patriottica come viene chiamata dal regime sovietico. Sono le ex combattenti che Aleksievic incontra fra il 1978 e il 1985 e poi, ancora, fra il 2002 e il 2004, per il suo primo libro, La guerra non ha un volto di donna, che è il testo che apre l'edizione delle Opere che Bompiani dedica alla scrittrice bielorussa, Nobel nel 2015 (pagg. 1040, euro 35, a cura di Sergio Rapetti, traduzione e cura di Nadia Cicognini e Sergio Rapetti; in libreria dal 19 gennaio). Si tratta del primo volume, Guerre, realizzato per volontà dell'autrice, che comprende anche Gli ultimi testimoni e Ragazzi di zinco (che appare qui in traduzione rivista e in versione aumentata e in parte inedita in Italia); nel secondo, Tornare al cuore dell'uomo, che uscirà in primavera, ci saranno Tempo di seconda mano e Preghiera per Cernobyl.

I tre libri raccolti in Guerre sono una immersione totale nel mondo della guerra, raccontata attraverso dettagli di violenza e crudeltà e commozione a volte sconvolgenti (quelli che tanto avevano indignato i censori), con uno scopo preciso da parte di Aleksievic: «Vorrei scrivere un libro sulla guerra tale da provocare nel lettore nausea e repulsione per essa»; un obiettivo difficile da raggiungere poiché, come dice al processo per diffamazione orchestrato nel 1993 contro Ragazzi di zinco, «ci hanno inculcato fin dall'infanzia, impresso nel nostro patrimonio genetico, l'amore per gli uomini in armi. Siamo cresciuti come se fossimo sempre in guerra, anche quelli che sono nati dopo la fine della guerra. E perfino dopo i crimini delle commissioni straordinarie della Rivoluzione, i reparti di sbarramento di Stalin e i lager, dopo i recenti avvenimenti di Vilnius, Baku e Tbilisi, dopo Kabul e Kandahar, la nostra vista è talmente condizionata da farci vedere in qualsiasi uomo in armi sempre quel soldato del 1945, il soldato della Vittoria».

Una Vittoria che, come mostrano benissimo La guerra non ha volto di donna e Gli ultimi testimoni, è macchiata di sangue, non è luminosa e pura come pretende il racconto univoco del regime. Ed è per questo che il censore interviene, perché Aleksievic non mostra la guerra «giusta»: «Sì, la Vittoria c'è costata molte sofferenze, ma lei deve orientarsi sugli esempi di eroismo. Ce ne sono centinaia. E invece lei della guerra preferisce mostrare il sudiciume, la biancheria intima». E poi l'accusa, l'ammissione della paura: «Chi andrà più a combattere dopo libri del genere?» le chiedono, e ancora: «Da dove le prende queste idee? Ci sono estranee. Non sono sovietiche». Da dove? Dalla volontà di indagare «la verità»: che sia quella delle donne che hanno combattuto nell'Armata Rossa contro i nazisti; che sia quella dei bambini di allora, gli «ultimi testimoni» della Grande guerra patriottica, che a 4, 5, 10, 12 anni avevano già visto ogni orrore, i padri partiti per il fronte e mai più tornati, i genitori massacrati sotto i loro occhi, la fame, la sete, i fratelli e le sorelle dispersi, le nonne violentate, le case ridotte in cenere, gli amichetti di cui rimane un pettine, i cani mangiati durante l'assedio, i resti umani, il rumore delle bombe, degli aerei, dei mitra; che sia quella dei soldati dell'Afghanistan, quasi dieci anni di conflitto (1979-1989) raccontato ingannevolmente come un intervento eroico, di «fratellanza comunista», omettendo la realtà dei massacri e degli abusi e nascondendo il numero dei caduti, e quella delle loro madri, che hanno salutato i figli e al loro posto, al ritorno, hanno visto soltanto delle bare di zinco. Vuote, a volte, o riempite di droga, o di sassi...

Se c'è oltraggio, è quello della menzogna di Stato, non certo la ricerca dell'uomo nella piccola storia. Se c'è oltraggio, è quella lacrima di un bambino versata in nome dell'armonia e della felicità, e che non ci permette di «giustificare il mondo», come nella citazione di Dostoevskij in esergo all'innocenza perduta e schiacciata di Gli ultimi testimoni. Se c'è oltraggio, è da parte di chi ci impedisce di chiederci: «Chi siamo, dunque?». Dice Svetlana Aleksievic in tribunale, parlando delle madri dei soldati che hanno combattuto in Afghanistan: «Il loro dolore è al di sopra di qualsiasi verità. Si dice che la preghiera di una madre raggiunge anche il fondo del mare. Nel mio libro essa trae questi ragazzi dal non essere. Essi sono le vittime sull'altare della nostra difficile e tardiva presa di coscienza. Non sono degli eroi ma dei martiri. E nessuno oserà scagliare contro di essi la prima pietra. Infatti siamo tutti in difetto, tutti abbiamo partecipato alla menzogna: di questo parla il mio libro.

Qual è il maggior pericolo di qualsiasi totalitarismo? Quello di rendere tutti complici dei suoi delitti». È così che, a volte, la Letteratura finisce a processo, e ci ricordiamo perché meriti la L maiuscola, come Libertà.

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