«Jean-Luc Godard non era malato, era semplicemente esausto». Di una vita che ha sempre voluto raccontare, in modo ineguagliabile, con la macchina da presa, Fino all'ultimo respiro, ricordando il suo film manifesto della Nouvelle Vague. E volendo dire basta ha fatto ricorso al suicidio assistito. Notizia confermata da un amico di famiglia al quotidiano Liberation. Indiscrezione avallata anche da un'altra persona molto vicina al regista franco-svizzero, scomparso ieri all'età di 91 anni.
Non a Parigi, come era stato erroneamente ritenuto nei primi momenti, ma in Svizzera, dove il suicidio assistito è consentito. Chi conosceva Godard potrebbe non essere sorpreso del modo con il quale ha salutato questa vita. Risale al 2014 una sua inequivocabile dichiarazione: «Spesso chiedo al mio medico, al mio avvocato, così: Se vengo da lei e le chiedo dei barbiturici, della morfina, me ne darà un po'? Non ho ancora ricevuto alcuna risposta favorevole». In una intervista concessa alla trasmissione Pardonnez-moi, della Radiotelevisione svizzera Rts, alla domanda se non fosse preoccupato di morire, Godard aveva risposto: «Non ho l'ansia di proseguire ad ogni costo. Se sono troppo malato, non ho alcuna voglia di venire trascinato su una carriola...». Potrebbe dunque ricorrere al suicidio assistito? «Sì», rispose lui, aggiungendo che «per il momento», questa scelta «è ancora molto difficile». Quella del mettere fine alla propria vita è una questione filosofica che ha accompagnato Godard per gran parte della sua vita. «Godard era affascinato dal suicidio», ha scritto il critico cinematografico Jean-Luc Douin, nel libro Jean-Luc Godard. Dictionnaire des passions. Tanto da girare, in gioventù, con una lametta da barba nel portafogli e di aver già tentato il suicidio «in una forma un po' da ciarlatano per richiamare l'attenzione su di me». Più che temere la morte, però, Godard pensava «alla sofferenza», al «resto, no».
Trattandosi di Maestri, con la «M» maiuscola, il pensiero non può non andare a Mario Monicelli quando, nel 2010, malato di cancro alla prostata, a 95 anni, si era buttato dal quinto piano di un ospedale romano, perché, con ogni probabilità, non voleva spegnersi, pian piano, nella sofferenza. Un po' come Carlo Lizzani che, a 91 anni, si era lanciato dal terzo piano della sua casa di via dei Gracchi, a Roma. «Avrebbe scelto l'eutanasia», aveva detto il figlio Francesco. Lizzani aveva lasciato un biglietto con scritto: «Ho staccato la chiave».
Tutti e tre, superati i 90 anni, hanno deciso, ognuno a proprio modo, che era arrivato il momento di dire basta. E chissà se Godard avrà ripensato alla frase di Michelangelo: «Il suicidio è l'estremo tentativo di migliorare la propria vita».
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