Per la milionesima volta John Landis assiste alla proiezione del suo capolavoro. Non può esserci lui se non ci sono i Blues Brothers. Stavolta l'occasione è il Magna Graecia Film Festival, che si è chiuso ieri sera al porto di Catanzaro Lido. Per il regista di alcune tra le pellicole più celebri della storia del cinema è stata l'occasione per conoscere la Calabria dove non era mai stato. Da presidente della giuria ha premiato come miglior film internazionale Princess of the row di Van Maximilian Carlson, menzione speciale all'attrice Seidi Haarla, protagonista di Scompartimento N.6 di Juho Kuosmanen.
Mister Landis, non è ancora stanco che sotto il suo nome compaia la scritta «il regista di Blues Brothers»?
«No. Dipende dalla prospettiva. Io mi sento molto fortunato del fatto che i miei film continuino ad essere apprezzati dopo così tanti anni. E poi la gente continua a vedere anche Animal House, Una poltrona per due e gli altri che ho girato».
Se fosse costretto a scegliere uno dei suoi film da lasciare nei libri di cinema quale sarebbe?
«È impossibile fare una classifica dei miei film. Sono tutti come dei figli. Sulla base di quali elementi si può decidere che uno è migliore dell'altro? Come si fa a dire se un film di Hitchcock è più bello di uno di Fellini?».
È John Landis che ha creato John Belushi o viceversa?
«Nessuno dei due. Belushi e Dan Aykroyd avevano già ideato i personaggi di Jake ed Elwood. Il nucleo del film era già stato portato in giro da loro nei club di Toronto, Chicago e New York. E poi io conoscevo bene John perché avevo già girato con lui Animal House. Ricordo che Dan era talmente devoto al messaggio di questo film che la battuta siamo in missione per conto di Dio l'ho inserita per prendere in giro questo suo trasporto».
E avevano già ideato il mitico look dark.
Sì, con quei cappelli, quegli occhiali e le cravatte. Ma quando girammo il film, quello stile non era sufficiente, dovevano creare un nuovo look, così con mia moglie Deborah (Nadoolman) che ha realizzato i costumi, decidemmo che avrebbero indossato i Ray-Ban Wayfarer. Lei andò in giro per i negozi a scovarli perché erano fuori produzione e sul set ne avevano dieci paia per John (che li perdeva sempre) e dieci per Dan».
L'ultimo suo film, «Ladri di cadavere», risale a dodici anni fa. Perché non ne ha più girati?
«Perché in questi anni non ho mai trovato un progetto che fosse veramente interessante. I film che piace fare a me non piacciono agli Studios americani e quelli che loro vogliono realizzare li trovo orribili. Ormai si fanno solo pellicole sui supereroi o saghe da branding. E visto che fare un film richiede un impegno di almeno un anno non sono disposto a lavorare a qualcosa che non mi interessa veramente. Anche perché il successo mi consente di non dover lavorare per forza».
Pensa che oggi film come i suoi non possano essere più proposti anche perché a Hollywood vige il politicamente corretto?
«Il problema non è questo. Ma il fatto che gli Studios o quello che ne resta non sono più disposti a rischiare, ormai sono diventati banche e case di distribuzione. E puntano soltanto ad un prodotto estremamente sicuro dal punto di vista degli incassi. La pandemia ha aggravato la situazione perché la chiusura dei cinema ha colpito un settore già in crisi».
Ma lei dovrebbe aiutare il cinema sfornando un altro dei suoi capolavori.
«Bisognerebbe dirlo a loro».
È vero che ha in mente di fare il sequel di «Un lupo mannaro americano a Londra»?
«Se ne è parlato, ma vedremo. Una cosa non è reale finché non si concretizza».
E ci potrà mai essere una serie tv sui Blues Brothers?
«Assolutamente no».
Lei ha lavorato con due grandi artisti. Qual è stata la differenza nei suoi rapporti con Belushi e Michael Jackson?
«Sono persone molto diverse tra loro. Ho amato enormemente entrambe. John è diventato dipendente dalla droga che poi lo ha ucciso, cosa per cui sono ancora molto arrabbiato. Era un attore dalla formazione classica e sarebbe stato in grado di fare qualsiasi cosa. Jackson era una persona cara ma piena di stranezze. Era doloroso vedere le sue automutilazioni».
Cosa si ricorda di quando girò il video di «Thriller»?
«Mi chiese all'improvviso di farne la regia.
Ma io non volevo realizzare un video rock ed è per questo che gli proposi di fare un cortometraggio, tanto è vero che dura quindici minuti. Fu molto semplice lavorare con lui dal momento che faceva tutto ciò che gli chiedevo senza batter ciglio. Incredibile».
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