Ne L'ultimo nastro di Krapp, capolavoro di Samuel Beckett, il protagonista cerca di sfuggire alla perdita di se stesso negli anni registrandosi ogni giorno, ma quando da vecchio riascolta i vecchi nastri non si riconosce più, sta ascoltando un estraneo. Noi continuiamo a dire «io», ma il nostro io cambia negli anni (come si rinnovano i nostri organi), e non necessariamente in meglio (se poi a uno viene l'Alzheimer ancor meno in meglio, ma non è detto, a volte non ricordare può essere una salvezza, dipende da cosa dimentichi).
A smontare l'illusione di un unico io che ci portiamo dietro ci pensò Marcel Proust, che anticipò di molti decenni le neuroscienze, e anche Paul Valéry nei suoi Quaderni, opera di introspezione scientifica incredibile. Ma se questo vale per qualsiasi persona, cosa succede a un artista, a uno scrittore, quando invecchia, con tutto quello che si è lasciato alle spalle, e cioè opere, pensieri, visioni del mondo?
Se lo domandò Gottfried Benn nel suo saggio tratto da una conferenza del 1954, Invecchiare come problema per artisti (Adelphi). Perché a un certo punto uno scrittore vero (dico vero perché il problema non si presenta per i timbratori di cartellini editoriali da premio) può già aver detto tutto, può sentirsi stanco e demotivato come qualsiasi altra persona, può in qualche modo morire prima di essere morto se non ha la fortuna di Proust di morire non appena scritta la parola fine alla Recherche. Siamo soliti citare gli scrittori come se fossero un tutt'uno, dalla nascita alla morte, ma non è così. C'è una lunga opera di Kant, l'Opus postumum, scritta tra il 1797 e il 1803, vent'anni dopo le grandi opere, in cui critica perfino la sua Critica della ragion pura. Va presa in considerazione come opera di Kant? Di Kant contro Kant? O di un altro Kant, visto che l'io è cambiato?
Di certo gli scrittori invecchiano, come chiunque altro (purtroppo, io mi ero illuso di salvarmi). Magari hanno già detto tutto quello che volevano dire, e non essendo gli autori da premio di cui sopra si ritirano, guardando quello che resta di sé stessi, in genere un mostro, o come direbbe Aldo Busi (che si è ritirato e non scrive più) «un sacchetto della spesa una volta svuotato dalla spesa». Bernard Shaw sentenziò: «i vecchi sono pericolosi, per loro il futuro è indifferente». Ci sono esempi innumerevoli anche per gli artisti, nel passato ancora più problematici.
Per esempio la strepitosa Pietà Rondanini scolpita da Michelangelo a ottantanove anni è un'evoluzione della sua opera, o la vediamo noi con sguardo moderno, mentre all'epoca era solo un'opera di un vecchio? Tiziano quando realizza Lo scorticamento di Marzia, dipingendo con le dita, sta anticipando l'espressionismo di cinquecento anni (cosa improbabile, nel caso era un po' troppo in anticipo per essere capito), o sta dipingendo come dipingerebbe un vecchio ormai quasi cieco? C'è una riflessione di Malraux, riportata da Benn, tratta da Psycologie de l'art, che dice: «Quando lo stile della morte li sfiora, si ricordano come in gioventù avessero rotto con i loro maestri, e a questo punto arrivano a rompere anche con la propria opera».
Non tutti sono così. Molti continuano fino alla fine, pensate a Hemingway: il suo libro più brutto (e ovviamente di maggior successo di pubblico), catalogato da Umberto Eco come un esempio di kitsch, e cioè Il vecchio e il mare, lo ha scritto in vecchiaia, poco prima di spararsi in bocca con un fucile (magari se ne era reso conto anche lui). Flaubert era già mentalmente vecchio a cinquantanove anni, viveva isolato da tutti e schifava tutti, ma sollecitato dai critici (ancora scandalizzati da Madame Bovary) che gli consigliano di esercitare le sue doti di osservatore sugli esseri umani più simpatici, scrive L'educazione sentimentale (in realtà un capolavoro), e viene accolto così: «un idiota, un lenone, che insudicia l'acqua della pozzanghera in cui si lava».
La vecchiaia di un artista, in ogni caso, non coincide mai con la sua età anagrafica, né con la sua aspettativa di vita. Personalmente, seguendo i ragionamenti di Benn di questo breve ma denso saggio, mi viene in mente l'ultimo frase scritta da Cesare Pavese: «Non parole, un gesto, non scriverò più». È l'ultima frase scritta dopo aver chiuso Il mestiere di vivere, prima di suicidarsi, ma fate attenzione alle parole: Pavese sta indicando un gesto (il suicidio), e la conseguenza non è «non vivrò più», ma «non scriverò più».
È il dramma dello scrittore vero (sempre escludendo gli impiegati della narrativa dei premi, quelli continuano a sfornare libri fino a novant'anni come se niente fosse, perché un fondo niente) è una volta arrivato al limite della propria opera: continuare a sopravvivere come una persona qualsiasi, oppure porre fine alla propria vita perché è morta la scrittura, e con la scrittura anche se
stesso, la sua ragione di vita. La conseguenza del suicidio di Cesare Pavese, per Pavese, era non scrivere più, non vivere era una questione secondaria, anche perché nessuno scrittore vero vive davvero se non nelle sue opere.
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