«La guerra è una sventura necessaria, purtroppo. È figlia di statisti scadenti ma, tutto sommato, a noi che cosa importa della politica se i nostri cari stanno male». L'applauso internazionale di Locarno ad Alexander Sokurov è piovuto immediato alle parole del regista russo, che ha presentato al Festival del film il suo Fairytale, cioè favola, invitato anche a Cannes due mesi fa ma ritirato dallo stesso autore, convinto che la Croisette non fosse la sede più idonea per la sua ultima opera, ritenuta «troppo seria per la Costa Azzurra».
La fiaba, in realtà, è pretenziosa e a tratti ha il sapore di una caricatura. I grandi della terra del secolo scorso - Mussolini, Hitler, Stalin e Churchill - con l'aggiunta di Napoleone si ritrovano in una sorta di limbo in attesa di conoscere il loro destino nell'aldilà. Sono consapevoli della transitorietà della loro collocazione. Non si azzardano a pensare al paradiso. Sperano di evitare l'inferno. Il rebus resta in sospeso, vista l'ambientazione che sembra uscire dalle illustrazioni della Divina Commedia di Gustave Dorè, cui il taglio in bianco e nero disegnato allude con grande evidenza.
Il resto lo fa un montaggio che usa la dissolvenza a scopo non soltanto estetico o esteriore. È una forma di comunicazione che rende il cinema un medium, come insegnò Christan Metz e un esempio sta proprio nello sfumare le folle plaudenti all'indirizzo dei dittatori in un bianco nulla cosmico che, senza troppe verbosità, risulta decisamente eloquente degli effetti del totalitarismo sulla società, trasformata in massa informe, priva di volontà e autodeterminazione, strumento nelle mani del despota.
Non a caso il dialogo tra i grandi della terra è più frivolo ed effimero che importante. Mussolini arriva a celebrare la centralità del Vaticano più che l'importanza della religione o della fede, perché in fondo è un altro modo di fare politica. Sokurov si dissocia e preferisce ironizzare. «Se Lucifero avesse incontrato quegli uomini si sarebbe dimesso con effetto immediato» ha detto senza pensare forse a un'attualità, diversa dal '900 ma, per tanti versi, ugualmente inquieta e tragica.
Per un Churchill che usa una sorta di cellulare mastodontico per comunicare con Sua Maestà di cui si sente emissario, ecco spuntare tre interlocutori che fanno di un egocentrico personalismo la cifra del loro individuale spessore. Un dislivello appiattito da un eloquio che sorprende.
I protagonisti usano infatti la loro lingua madre ma si comprendono perfettamente perché il limbo non ha ostacoli né confini. È un giudizio universale paralizzato che sembra non saper indicare una strada post mortem agli «attori» del secolo breve.
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