Il poliziotto Raymond, l'infermiera Beatrice, il piccolo imprenditore Salvatore e l'insegnante Regina sono il cast principale di Anche le pulci prendono la tosse (Solferino) di Roberto Costantini, un instant noir che fotografa i momenti terribili della pandemia in una storia in cui i personaggi sono alle prese con le loro vecchie paure e quelle nuove scatenate dall'epidemia. I diritti verranno devoluti a «un aiuto contro il coronavirus». È lo stesso Costantini a spiegare la genesi di quest'opera nata «tra il terribile Tg della sera coi camion militari con le bare e l'alba. Mai accaduto prima, in una notte le novanta scene e i personaggi erano tutti lì, chiarissimi, non ho dovuto nemmeno ritoccare».
Quali crimini ha scelto di raccontare?
«Quelli veri nati con il coronavirus. Un gruppo di mezzi delinquenti, balordi, meschini, mette su un business per fabbricare mascherine, contraffare la certificazione e venderle all'ospedale locale, dove il personale sanitario combatte una battaglia disperata».
Come ha scelto i protagonisti?
«Le pulci del romanzo sono quattro, accomunate da una vita banale, non disperata ma da nulla, un po' come gli italiani di Alberto Sordi. Li ho scelti da quattro settori in prima linea con il Covid e molto rappresentativi: una professoressa, un poliziotto, un'infermiera, un piccolo imprenditore».
In apertura alla storia c'è una frase recitata da una donna morente.
«Regina è vissuta in un mondo che uccide le anime sensibili, muore in un mondo dove i corpi spariscono e le anime rinascono. Le mie pulci rinascono grazie al virus che le trasforma in eroi. Una parabola di speranza».
Il virus come lo ha descritto?
«Attraverso le testimonianze dirette di un giovane medico in prima linea e di una professoressa di liceo, le voci della realtà inimmaginabile».
Quanto è stato fondamentale il suo ruolo di acceleratore di destini?
«Senza il virus le mie pulci sarebbero rimaste tali e un giorno sarebbero morte da pulci».
Come ha cercato di raccontare il mondo dell'imprenditoria davanti a una tragedia del genere?
«Dai tre diversi punti di vista della famiglia Casiraghi, tutti in fondo legittimi: il dibattito aperto tra economia e salute è così difficile da risolvere, ogni lettore decide per sé».
Sentiva più voglia di giustizia o di testimonianza?
«Nessuno dei due, non appartengo alla folta categoria di chi sa cosa si dovesse fare. Anzi, non lo sapevo allora e neanche adesso. E in realtà non lo sa nessuno».
Crede di avere scritto un noir di impianto sociale?
«La storia crime e la storia d'amore certo sono in un contesto sociale rilevante. Ma di nuovo, non ci sono giudizi, solo il racconto che costringe il lettore a porsi qualche domanda, questo sì».
Voleva schiaffeggiare qualcuno con quello che ha scritto?
«Schiaffeggiare no. Ma tutti quelli che sono certi di cosa fosse giusto o meno mi fanno sorridere, e ne leggiamo ogni giorno di sentenze. Se c'è una cosa che dovremmo aver imparato, oltre a lavarci di più le mani, è di aspettare un po' prima di parlare».
E chi voleva ricordare e ringraziare per il suo operato?
«Talmente tanti che non sono citabili.
L'Italia è un Paese di gente meravigliosa, pensate a quelle quattro categorie delle pulci: insegnanti, forze dell'ordine, personale sanitario, imprenditori, in larga misura tutti hanno fatto il possibile e a loro va il grazie di chi, come me, ha dovuto solo chiudersi in casa e aspettare, e scrivere questo libro...».
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