Federico Faggin sorride: «Qualcuno pensa che Irriducibile si riferisca a me...». Invece Irriducibile (Mondadori, pagg. 296, euro 22) è, per sintetizzare, la coscienza: rispetto alla materia, e rispetto alle macchine. E addio ai sostenitori dell'Intelligenza artificiale. «Sorry» dice Faggin, il quale, proprio nel settore, aveva tentato di mettere la ciliegina sulla torta (tecnologica) di una carriera iniziata all'Istituto tecnico industriale Rossi di Vicenza (la città dove è nato, nel 1941), proseguita con la laurea in Fisica a Padova, un lavoro in Italia in una ditta di semiconduttori per la quale decide di seguire «qualche progetto negli Stati Uniti» e, lì, l'invenzione del microprocessore, il primo al mondo, l'Intel 4004. Insomma, un guru dell'informatica (Obama gli ha conferito la Medaglia nazionale per la Tecnologia e l'Innovazione nel 2010). Che però...
Federico Faggin, partiamo dall'inizio, dal mondo dei computer. Quando è arrivato in America?
«Era il '68. Lavoravo per l'allora Sgs Fairchild, che si occupava di circuiti integrati bipolari. Lì ho inventato un nuovo processo per fare i circuiti con una porta in silicio, la cosiddetta tecnologia Silicon gate».
Perché è importante?
«In quindici anni ha rimpiazzato la tecnologia bipolare, che dominava nei circuiti integrati, consentendo di creare circuiti integrati più complessi, cinque volte più veloci e con una corrente di dispersione da cento a mille volte migliore».
E poi?
«Poi sono passato alla Intel, dove, proprio grazie alla tecnologia Silicon Gate, ho inventato il microprocessore».
Insomma è un inventore, di quelli veri.
«Sì. Queste due cose hanno cambiato la storia dei semiconduttori. E con la Zilog, che ho fondato nel '74, ho creato un altro microprocessore, lo Z80, che ha avuto un grandissimo successo ed è ancora prodotto».
È diventato ricchissimo?
«Mi sono difeso bene. Diciamo che, prima dei 40 anni, avevo abbastanza soldi per non dover più lavorare».
Invece...
«Ho fondato la Synaptics: volevo creare circuiti integrati per computer che potessero imparare da soli, per sistemi di Intelligenza artificiale. Ho lavorato sulle reti neurali ma, allora, erano sottostimate, anche se poi si sono rivelate alla base di tutti i progressi nel settore; comunque, come ripiego, mi sono messo a produrre le tecnologie touchpad e touchscreen: il che ha permesso alla ditta di andare molto bene, al punto che avrei potuto non lavorare altre dieci volte».
Si può dire che, dal mondo delle macchine, abbia avuto grandi soddisfazioni?
«Sì, però c'era un problema. Nonostante avessi raggiunto tutto ciò che il mondo sostiene serva per essere felice, non lo ero. E ormai avevo fatto tutto, ero alla fine della lista. Così ho iniziato a studiare la coscienza».
Da quale punto di vista?
«Allora ero materialista, quindi mi dicevo: se il cervello è un oggetto, come un computer, anche un pc dovrà avere una coscienza. E cercavo di capire come. Poi ho notato che i testi di neuroscienze descrivevano la coscienza come se l'esperienza che abbiamo quando guardiamo un paesaggio, annusiamo un profumo o sentiamo una musica fosse tutta soltanto nei segnali elettrici e biochimici. Era come se questi segnali coincidessero con la nostra esperienza cosciente».
Che conclusione ha tratto?
«Che la parola coscienza era sgradita, e quello di cui parlavano un inganno. Lo stesso di oggi sull'Intelligenza artificiale: ci raccontano le cose che fanno i computer come se fossero loro a farle, e non fossero programmati da noi. Oltretutto, i computer lo fanno come delle macchine, al buio: dentro hanno solo segnali. È una forma di indottrinamento, per cui la coscienza è identificata con un fenomeno materiale, che nasce da un meccanismo, da fattori biologici, mentre non è così».
Come ha compiuto questa svolta?
«Come ho raccontato in Silicio, il mio primo libro, ho avuto una esperienza straordinaria, che chiamo il risveglio, che mi ha fatto capire come la coscienza fosse ben di più di quello che pensassi, e mi ha aperto un altro mondo, quello della spiritualità, che avevo eliminato. È un mondo che ha un forte contatto con la religione, e mi ha portato a iniziare un percorso, durato vent'anni, sulla natura della coscienza, la meditazione... Ne ho fatte di tutti i colori, senza ricorrere a droghe, sia chiaro».
E dove l'ha portata questo percorso?
«Ho capito che la coscienza non può essere un fenomeno della fisica classica. A 68 anni sono andato in pensione per dedicarmi allo studio della coscienza e nel 2009 ho creato la Federico and Elvia Faggin Foundation, per capire la fisica della coscienza, non solo la metafisica, e per unire l'aspetto spirituale e quello scientifico, creando un ponte fra questi due ambiti, oggi considerati invalicabili».
Come li tiene insieme?
«Per me contano entrambi, e si combinano in maniera meravigliosa per creare una conoscenza di sé che non sarebbe possibile solo attraverso la realtà fisica, simbolica; quest'ultima infatti si integra con l'esperienza interiore, che è realtà quantistica. Con il prof Giacomo Mauro D'Ariano abbiamo elaborato la prima teoria al mondo su coscienza e libero arbitrio in ambito fisico quantistico: un modo di pensare per fare scienza sulle esperienze interiori».
Che cosa dice la fisica quantistica sulle esperienze interiori?
«Dice che l'informazione quantistica non è donabile: rappresenta l'esperienza del sistema che è in quello stato quantistico, che è privata, in quanto esperienza interiore della coscienza. Del resto, sappiamo bene come la nostra esperienza sia unica: io non posso sapere quello che pensa davvero, in questo momento, neanche se le apro la scatola cranica».
È quella che chiama Seity?
«La Seity è l'ente cosciente: il sistema quantistico che è cosciente, può agire col libero arbitrio e ha una identità, cioè è autocosciente».
E la materia?
«La materia ha una sua realtà, che è informazione classica, che è ciò che consente alle Seity di comunicare, attraverso simboli condivisibili, come i bit del computer, o le parole, cosicché tutti abbiamo accesso a queste informazioni. Così portiamo significato nella fisica, creando una connessione fra interiorità - la fisica quantistica - e esteriorità - la fisica classica».
Una forma di idealismo?
«Non duro, però. Il fatto è che questa teoria va contro il materialismo dominante oggi, quindi troverà molta resistenza. Ci vorranno almeno 30 o 40 anni, ma ci arriveremo, come per le reti neurali».
A questo punto, l'Intelligenza artificiale si può chiamare intelligenza?
«No, perché l'intelligenza vera ha bisogno del libero arbitrio e di quell'aspetto, non algoritmico, che è la creatività».
E gli allarmi sui computer che ci controlleranno?
«Penso che le cose che dicono potrebbero succedere non perché il computer voglia ottenere il controllo, bensì perché l'uomo, quello nascosto dietro,
che controlla i computer, vuole far fare questo alle macchine. I computer non possono decidere nulla. È un lavaggio del cervello, fatto usando idee sbagliate, al fine di monetizzare, di sfruttare le nostre informazioni».
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