Fra i campi di prigionia allestiti negli Stati Uniti durante il secondo conflitto mondiale per rinchiudere i militari degli eserciti dell'Asse (solo i nostri soldati erano 50mila) ce ne fu uno molto speciale, la cui fama oggi trascende le vicende della guerra. Era in Texas. A Hereford. E fu destinato esclusivamente ai prigionieri italiani, tremila in tutto, catturati fra il 1940 e il '43 e che dopo l'armistizio rifiutarono di collaborare con gli americani. Li chiamavano gli «irriducibili». E, per un fenomeno particolare di «sincronicità casuale», erano in gran parte intellettuali: giornalisti, scrittori, pittori, latinisti, illustratori, musicisti... «Che miniera, quell'Hereford, di genii!», lasciò detto nelle sue memorie Aurelio Manzoni, reduce di quel campo.
Rimasto nella memoria come «campo fascista», soprattutto per via del titolo Fascists' Criminal Camp che Roberto Mieville, fra i fondatori del MSI, diede al suo libro pubblicato nel '48, il centro di detenzione di Hereford fu qualcosa di più e di diverso. Lo spiega bene lo storico Flavio Giovanni Conti nel nuovo saggio Hereford. Prigionieri italiani non cooperatori in Texas (il Mulino) che ricostruisce la storia di quel particolare campo, la vita quotidiana dei detenuti, la presenza inusuale di molti uomini di cultura e i differenti motivi per cui rifiutarono di passare al nemico. Fra quanti scelsero di non cooperare con gli americani, infatti, non c'erano solo fascisti e repubblichini, ma anche apolitici, liberali e persino comunisti e socialisti (chiamati i «collettivisti»). In quanto militari, i prigionieri non vollero collaborare per un sentimento di coerenza e lealtà alla parola data nel momento dell'entrata in guerra. Tanto più che il governo italiano dopo l'8 settembre non diramò mai un ordine preciso in tale senso. Senza contare le pericolose conseguenze che la cooperazione avrebbe comportato, come ad esempio lavorare nelle industrie di armi che sarebbero state utilizzate contro la popolazione in Italia o il rischio di rappresaglie nei confronti delle loro famiglie in patria.
Non tutti fascisti, quindi. Ma moltissimi intellettuali, grazie all'alto numero di ufficiali con un livello di istruzione generalmente elevato. L'aspetto più incredibile è che riuscirono non solo a sopravvivere, ma a scrivere e dipingere, nonostante in alcuni momenti le privazioni, la fame, le violenze fossero particolarmente pesanti.
I più noti tra i prigionieri del campo di Hereford, «texani» destinati a diventare nomi di riferimento del '900 letterario e artistico, sono Giuseppe Berto e Alberto Burri. Il primo proprio qui orientò la propria scelta letteraria. Iniziò a collaborare con alcune riviste che venivano pubblicate nel campo - a volte in copia unica! - poi scrisse racconti e soprattutto il romanzo cui Leo Longanesi, che lo pubblicò nel '46, diede il titolo Il cielo è rosso. E il secondo nel campo, come riconobbe lui stesso anni dopo, capì che doveva fare il pittore. Già volontario nella guerra d'Etiopia (Burri non rinnegò mai a differenza di altri l'adesione al fascismo), nel 1940, ufficiale medico, fu inviato prima sul fronte jugoslavo e poi in Africa. Catturato in Tunisia nel maggio del '43, durante la prigionia a Hereford rinunciò a svolgere la professione medica per protesta contro le restrizioni imposte dagli americani, e decise che da lì in avanti si sarebbe dedicato solo alla pittura, diventando nel dopoguerra un nome di livello internazionale. Iniziò con opere figurative. Il primo quadro che dipinse, dal titolo Texas, un olio su tela, rappresenta ciò che vedeva dell'esterno del campo (molti dei dipinti riuscì a farseli spedire in Italia, ma li distrusse quasi tutti), poi quasi subito cominciò a utilizzare nuove tecniche e materiali, come i sacchi di juta recuperati nelle cucine. Da materiale povero e occasionale i sacchi divennero il suo segno artistico distintivo: l'espressione di una poetica e di una visione dell'esistenza.
«Resistevamo alla fame e al freddo, e si lavorava accanitamente nonostante la debolezza: Medici scriveva musica, Berto il suo romanzo, Tumiati, Fioravanti, Buonassisi e il sottoscritto racconti, teatro, poesia: Selva, Ravaglioli, Dello Jacovo saggi politici, Burri dipingeva...», ricorderà più avanti Dante Troisi, scrittore (con L'odore dei cattolici nel '63 fu tra i finalisti del Premio Strega) e magistrato autore di quel Diario di un giudice, uscito nel 1955 prima su Il Mondo di Pannunzio e poi nei «Gettoni» Einaudi, che suscitò scandalo e gli valse una censura disciplinare per offesa alla magistratura....
E gli altri? A Hereford c'era Giosuè Ravaglioli, «il dittatore intellettuale del campo», già giornalista del Piccolo di Trieste, uno degli uomini più colti della «squadra» texana, lettore severo di tutti gli scritti dei suoi compagni (diede anche consigli a Berto), antifascista, che dopo la guerra entrò nel PCI. C'era il giornalista sportivo Armando Boscolo, autore del libro più famoso uscito dal quel campo, Fame in America (1954). L'architetto e disegnatore Giovanni Rizzoni. Il giornalista e illustratore Ervardo Fioravanti. Il musicista Mario Medici, fondatore e direttore negli anni '60 dell'Istituto di studi verdiani di Parma. Il latinista Augusto Marinoni, fra i massimi esperti di Leonardo da Vinci. Il matematico Mario Baldasarri. Il gastronomo e conduttore televisivo Vincenzo Buonassisi. Diversi futuri politici, fra i quali Beppe Niccolai, deputato del MSI tra gli anni '60 e '70. E ancora. Vezio Melegari, disegnatore e caricaturista. Il repubblichino Gaetano Tumiati, giornalista, scrittore e critico letterario, direttore dell'Illustrazione italiana, poi vice di Lamberto Sechi a Panorama e vincitore del Premio Campiello nel '76 col romanzo Il busto di gesso.
E il pittore, Dino Gambetti, uno dei nove prigionieri italiani, «italici milites», cui fu chiesto di affrescare la chiesa di St. Mary's a Umbarger, trenta chilometri da Hereford. Lo fecero - per spirito cristiano e in cambio di lauti pasti - fra l'ottobre e il dicembre del '45, decorando, dipingendo e intagliando legno. Ancora oggi i loro nomi sono incisi su una targa, nel portone della chiesetta.
Circa la qualità degli affreschi, Mario Tavella ricorda nelle sue memorie: «L'opera conclusa è più che dignitosa e, tenendo conto dei loro parametri di giudizio, è considerata dagli indigeni alla stregua della Cappella Sistina».
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