Giunta con Jurassic World – Il dominio al suo sesto capitolo, la saga sui dinosauri creata nel 1993 da Steven Spielberg e basata sull'omonimo romanzo scritto da Michael Crichton, ha perso quasi tutto il suo fascino.
Il film, al momento al cinema, è costruito in modo da ingolosire i fan dei capitoli precedenti ma non ha molto da offrire a parte la reunion epocale tra i protagonisti storici, l’indimenticato terzetto costituito dalla dottoressa Ellie Sattler (Laura Dern), dal dottor Ian Malcolm (Jeff Goldblum) e dal paleontologo Alan Grant (Sam Neill) e quelli della nuova trilogia, i meno convincenti Owen Grady (Chris Pratt) e Claire Dearing (Bryce Dallas Howard).
Alla fine del capitolo uscito quattro anni fa i dinosauri erano pronti a diffondersi in tutto il mondo, costringendo l’uomo a riflettere su un domani diverso. In “Jurassic World 3” vediamo appunto in apertura i frutti di una acerba convivenza che se da un lato affascina, dall’altro nasconde derive significative come il mercato nero e il bracconaggio. Gli esemplari più grandi o più pericolosi di dinosauro dimorano in un santuario naturale sulle Dolomiti, gestito da una multinazionale biotech capeggiata da una sorta di capitalista illuminato (o almeno tale lui si ritiene), Lewis Dodgson (Campbell Scott). L’uomo, che già ha sulla coscienza un’invasione planetaria di gigantesche locuste in grado di affamare l’umanità, non esita a far rapire Maisie Lockwood (Isabella Sermon), la bambina clonata del precedente film.
Malgrado Steven Spielberg trent'anni fa abbia indicato la luna, Colin Trevorrow deve essersi fermato a guardare il dito.
Mai trascinante o coinvolgente, la trama non conosce vera avventura: non c’è mistero alcuno da svelare né senso di meraviglia cui abbandonarsi. “Jurassic World – il dominio” è un action, neanche convincente, di quelli in cui si fa il giro del globo in un paio d’ore tra inseguimenti in moto e atterraggi di fortuna. Perso in un citazionismo trasversale, che va dai western alla John Ford allo Spielberg anni 80 di Indiana Jones fino a George Lucas e a certi Mission Impossible o Bond-movie, il film cerca una sua originalità in piaghe bibliche, clonazioni e complotti, vale a dire in materiale narrativo che più usurato non si può.
A dare un po’ di freschezza a quella che fino a qui appare una mera operazione fan service vengono ingaggiati nuovi personaggi come la volitiva pilota di cargo Kayla Watts (DeWanda Wise), una specie di Han Solo al femminile, e ampliata la gamma di dinosauri, qui più che mai di ogni forma e dimensione. Il problema è che il racconto resta in superficie e, anziché approfondire la problematica della convivenza tra specie diverse, si concentra sui rapporti affettivi tra i personaggi. Il messaggio ecologista e l’invito alla tolleranza e alla coesistenza ci sono, ma vengono appena accennati come se il regista facesse la spunta degli ingredienti obbligatori nella sua rincorsa ad emulare più illustri predecessori.
Anche il villain è un annacquato deja-vu: il solito cattivaccio di potere che per le proprie manie di grandezza è pronto a sacrificare il resto del mondo.
In teoria la chiusura del cerchio, nel terzo e ultimo atto della saga sequel, promuove un’alleanza tra passato e presente per permettere al futuro di esistere. Peccato che nell'esecuzione siamo di fronte alla piatta unione di due generazioni di personaggi, nell'illusione forse che i sussulti nostalgici possano bastare al pubblico.
In definitiva il ritorno in scena di vecchie icone e il persistente riferimento ad altri titoli condannano “Jurassic Park 3” a restare ostaggio di un passato cinematografico di ben altro spessore.
Un’occasione sprecata, nonché un film di cui ci si dimentica facilmente.
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