Inavvicinabile. Ha fatto di sé stesso un tabù, un dicastero di ombre, sembrava governare su ere zodiacali, come l'Imperatore di Star Wars. Roberto Calasso, semplicemente, mero corpo corruttibile, non esisteva: si è fatto verbo, schiudeva specchi. Era bello, Calasso, da ragazzo, un fauno, benedetto da una prodigiosa giovinezza. Fiorentino, figlio di Francesco Calasso, maestro in «scienze giuridiche», preside della facoltà di giurisprudenza a Roma, e di Melisenda Codignola, figlia di Ernesto, il grande pedagogista, cofondatore de La Nuova Italia, crebbe affilando lo sguardo, ipnotico. Il fratello Gian Pietro, di quattro anni più vecchio, regista, cresciuto attorno a Monicelli e Zeffirelli, ha dichiarato di adorare Billy Wilder e Kurosawa; Roberto Calasso in Allucinazioni americane stila un mausoleo in onore di Alfred Hitchcock. «La finestra sul cortile è l'Occidente stesso, nella sua forma più ammaliante e irriducibile», scrive, avvicinando Grace Kelly a Rabbi Eisik, mistico chassidico, collegando la macchina fotografica di James Stewart all'«angoscia di Arjuna nella Bhagavadgita».
Roberto Calasso capì di essere Roberto Calasso poco più che ventenne, per benedizione di Bobi Bazlen. Cinquant'anni fa fu eletto direttore editoriale di Adelphi, il suo capolavoro; col tempo, non era chiaro se fosse Teseo, Minotauro, Dedalo. Per qualcuno, Calasso era Minosse, giudice inflessibile, capace di ordire labirinti e aggiogare mostri. Per diventare inavvicinabile, tuttavia, era necessaria l'opera. Calasso nacque alla letteratura nel 1974, con L'impuro folle - inutile ricordare che «il puro folle» è Parsifal -, dove si definisce «un obliquo cronista attuale» e racconta la storia di Daniel Paul Schreber, che è lo scrittore delle Memorie di un malato di nervi, libro in catalogo Adelphi. Già, l'opera di Calasso scrittore è consustanziale al catalogo Adelphi, ne è l'appendice. Enciclopedico, istrione, involuto, Calasso aveva la virtù di non farsi capire. Non desiderava essere compreso, in effetti, non ambiva a premi, le recensioni, comunque, sarebbero giunte a pioggia: totalmente del mondo, da eccelso gnostico, era al di là del mondo.
In questo, la sua scrittura è di micidiale esattezza: raffinata, colta fino a estenuare l'idea stessa di biblioteca, esangue. Aveva la grazia retorica di Michele Psello, che della chiacchiera tra i rioni di Bisanzio seppe fare liturgia; era rigoroso come Plutarco, sempre sulla soglia di svelare i misteri, di cui dava a intendere l'odore, il colore. Nel 1983, con La rovina di Kasch, Calasso inaugura quella che alcuni definiscono «opera», ma che è corretto chiamare «pleroma»: un'epopea gnostica che si conclude, nel 2020, con La tavoletta dei destini. Per lo più, i romanzi di Calasso - che coagulano Baudelaire a Lascaux, le Ninfe e Robert Walser - stanno tra la fiaba e il saggio, sono pura sapienza, algebra catara: Calasso ha reso essoterico l'esoterico. Tentò di scrivere Il libro di tutti i libri - così il titolo del suo romanzo biblico, edito nel 2019, non il più bello -, cioè di evocare l'incendio bibliografico: con Le nozze di Cadmo e Armonia (1988), forse perché parlava degli dèi olimpici, si guadagnò un certo pubblico, l'idolatria critica, i galloni di scrittore di culto, alchemico, inafferrabile. Dedicò un libro a Franz Kafka - che figura tra i suoi atavici lari -, K. (2002), e di Kafka, per la sua casa editrice, ha curato gli Aforismi di Zürau; L'ardore (2004) si concentra sull'India vedica, «è un viaggio scombussolante, vertiginoso, quale pochissimi altri libri possono offrire», recita la quarta dell'edizione economica, firmata da Emmanuel Carrère, autore Adelphi. D'altronde, «L'energia creativa di Roberto Calasso è inarrestabile», ha scritto Muriel Spark, autrice di spicco nel catalogo Adelphi.
Roberto Calasso, fenomeno pitagorico, è il più rappresentativo autore della sua casa editrice: tanto snob da autopubblicarsi per eccesso d'intelletto. Pubblicò in Adelphi anche i romanzi della moglie, Fleur Jaeggy, dotata, scrive Iosif Brodskij - immenso poeta edito da Adelphi -, di «una prosa straordinaria». Questo per dire che Calasso costituì, anche attraverso i suoi romanzi, un cenacolo, una flotta di adepti (per ogni chiarimento si legga La cena segreta, Adelphi, 1997).
In una lunga intervista rilasciata alla Paris Review, dieci anni fa, racconta della sua passione per Thomas Browne e Marlon Brando, dei legami della sua famiglia con Giovanni Gentile, di quando Bianchi Bandinelli accompagnò Hitler, nel 1938, a visitare gli Uffizi. «Roberto Calasso è una istituzione letteraria», attacca la giornalista Lila Azam Zanganeh. Nel mondo inglese i romanzi di Calasso sono editi da Farrar, Straus and Giroux, e magnificati; in Francia è edito da Gallimard. Soltanto Cesare Cavalleri ha osato scrivere che i libri di Calasso «sono calchi... simulacri di simulacri» composti in una «scrittura lievitata da fioca febbre», ma in quel caso siamo nell'ambito della guerra santa, l'unico ring, per altro, verso cui Calasso dimostrava interesse.
Aveva - lo si desume dal volto - una generosità leonina, aggressiva; quanto al resto, mirava il caos mondano con ironica indifferenza. Fortunatamente antipatico, nelle fotografie da ragazzo pare la reincarnazione di Antinoo, il giovane divinizzato da Adriano.
Capì prima di tutti il genio di Cristina Campo; solo gli infedeli attribuiscono al caso - o al lucro - il fatto che il giorno della morte di Calasso coincida con quello dell'uscita dei suoi ultimi libri, autobiografici, Bobi e Memè Scianca. Ha vissuto preparandosi alla fine. Riuscì a rendersi inaccessibile, infine leggendario. Lo si guardava di spalle; se lo toccavi, è probabile, si sarebbe sbriciolato.
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