Federico Nati è pronto a fare le valigie, destinazione Antartide. È laggiù, nel laggiù più estremo che ci sia sulla Terra, che si trova il Plateau, ovvero l'Altopiano antartico, una zona tutta ghiaccio e luce a un'altezza che supera i tremila metri, nella quale Nati cerca di fare una cosa incredibile: mettere in funzione Blast, un supertelescopio che, oltre ad avere uno specchio speciale di due metri e mezzo costruito dalla Nasa, «non è appeso a terra ma, per operare, esce dall'atmosfera; e, per farlo, viene appeso a un pallone, come fosse una grande mongolfiera, che lo porta a circa 40 km di quota, nella stratosfera». E da lassù, beh, Blast «si muove, attaccato al pallone, per osservare le regioni di cielo che ci interessano».
Sembra fantascienza, ma è astrofisica. Nato a Roma nel 1975, esperienze negli Stati Uniti (per anni ha lavorato all'Università della Pennsylvania) e sui vulcani delle Ande, Nati è tornato in Italia da un anno, all'Università di Milano Bicocca, dove fa ricerca e insegna Cosmologia sperimentale, ovvero spiega il suo stesso lavoro, «la strumentazione che serve per gli studi di cosmologia». E ora ha scritto L'esperienza del cielo. Diario di un astrofisico (La nave di Teseo, pagg. 202, euro 17; in libreria da oggi) per raccontare i due mesi passati in Antartide con il progetto Blast, fra novembre 2018 e gennaio 2019. In attesa di tornare, a breve, fra i ghiacci, proprio nello stesso periodo.
La vita di un astrofisico è sempre così avventurosa?
«È la fortuna di essere scienziati sperimentali. Io mi occupo di progettare, costruire e mettere in funzione gli strumenti che osservano il cielo».
Come sono i supertelescopi?
«Simili a una macchina fotografica, ma grandi come un edificio. E si possono installare in zone remote, come la cima di una montagna, o di un vulcano. Per esempio nel deserto di Atacama, sulle Ande del Cile, a 5.200 metri, dove si trova l'Atacama Cosmology Telescope, dove ho lavorato sei mesi».
Perché cercate i deserti?
«Perché l'atmosfera è un disturbo, come una nebbia che acceca, e dà fastidio alla fotografia... L'ideale è essere in alto e con una atmosfera secca, proprio come ad Atacama, o in Antartide».
Che differenza c'è fra il telescopio di Atacama e Blast?
«Sono edifici semoventi, con specchi enormi. Lo specchio di Atacama è uno scodellone di sei metri; poi c'è il criostato, un grosso cilindro che contiene liquidi criogenici, come l'elio liquido».
E a che cosa servono?
«Il criostato è un frigorifero altamente tecnologico, che porta le cose allo zero assoluto, a -273 gradi, poco sopra lo zero kelvin».
Che cosa contiene?
«Sensori di luce, componenti elettroniche complesse che ci consentono di salvare poi i dati raccolti su hard disk».
Perché il criostato deve essere così freddo?
«È una questione centrale. Dato che l'universo è freddo, serve uno strumento freddo per misurarne i segnali: la luce che viene dall'universo arriva da regioni raffreddate, poco sopra i due gradi kelvin, la temperatura della radiazione cosmica di fondo».
Che cosa ci dicono questi segnali?
«Ci parlano della storia evolutiva dell'universo».
Blast com'è?
«Simile al telescopio di Atacama, ma diverso. È un progetto molto più ambizioso, e rischioso. E la sua durata è per forza più breve, perché non può restare in quota troppo a lungo».
Quanto può volare nella stratosfera?
«Si spera due-quattro settimane. E, per arrivarci, ci vogliono quattro-cinque anni di lavoro. Poi, per mantenerlo in quota, c'è un altro problema: non lo governiamo, perché è preda dei venti».
E come si fa?
«In Antartide, oltre al fatto che la zona è disabitata e quindi non c'è il rischio che cada in testa a qualcuno, c'è un altro vantaggio, il vortice polare, ovvero il fatto che i venti si muovano in circolo: quindi, quando il pallone si immette nel vortice, segue una traiettoria abbastanza prevedibile per due settimane, per poi tornare al punto di partenza. Si potrebbe anche fare un altro giro... Ride? Eh, anche noi astrofisici ridiamo».
Che cosa vede da lassù?
«Può aiutarci a studiare molte bene le regioni diffuse, le zone delle nebulose che daranno vita a nuove stelle».
Poi tutti i segnali captati diventano dati? Di che tipo?
«Sì, terabyte di dati sull'hard disk. Per esempio, se centocinquanta anni fa, o anche sessanta, avesse chiesto a un fisico come è fatto l'universo, se abbia un'età, se sia cambiato nel tempo, le avrebbe dato risposte molto diverse. Oggi possiamo dare risposte incredibilmente precise, grazie all'unione di due canali: quello teorico e quello sperimentale, che raccoglie dati che vengono dall'osservazione di oggetti celesti e dalla radiazione cosmica di fondo».
Quali dati vi aspettate dalle osservazioni di Blast?
«I fisici hanno sviluppato dei modelli che prevedono la nascita di un certo numero di stelle; però abbiamo visto che ne nascono meno del previsto. Blast potrebbe dirci se esista un campo magnetico nelle nebulose, che rallenta la formazione delle stelle. Ci potrebbe dare una risposta che, oggi, non esiste, ed è l'unico esperimento in grado di farlo».
Il lancio sembra piuttosto difficile.
«Molto. È un esperimento complesso, in cui le sorgenti di problemi sono sempre nuove e imprevedibili».
Che cosa serve nel suo lavoro?
«Capacità di adattamento. Imparare a imparare, rapidamente. Un forte istinto di problem solving e, anche, di problem finding, perché spesso il problema, prima di risolverlo, bisogna trovarlo».
Quanto costa Blast?
«La cifra totale, che include tutti i costi della missione, dei materiali, della tecnologia, del personale, della ricerca e sviluppo è sui 5 milioni di dollari. Il telescopio di Atacama ha costi superiori, però può operare per anni».
Superiori quanto?
«Ventimila dollari al giorno. Ogni volta che c'era maltempo e non potevamo fare osservazioni, c'era qualcuno che ci ricordava che stavamo sprecando ventimila dollari...».
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