È passato incredibilmente sotto silenzio il cinquantesimo anniversario della scomparsa del grande storico Gioacchino Volpe avvenuta il 1° ottobre 1971 a novantacinque anni. La dimenticanza, frutto di una ingiusta damnatio memoriae, è tanto più grave quanto si pensi che al suo magistero sono legati i nomi più significativi della storiografia contemporanea, da Federico Chabod a Franco Valsecchi, da Cinzio Violante a Ernesto Sestan fino a giungere a Rosario Romeo, il quale, pur essendo di una generazione successiva, rivendicò sempre una ideale figliolanza con lui.
La verità è che, attorno alla memoria di Volpe, senza dubbio il maggiore storico italiano del Novecento, ha pesato la condanna acritica sulla sua militanza fascista e, ancor più, monarchica e filo-sabauda. Una condanna, dovuta all'egemonia culturale della sinistra ed espressa a mezza bocca: una condanna frutto di cattiva coscienza che si traduce, spesso, in mistificazioni. Come quella, per esempio, che tende a distinguere lo storico medievista, degno di attenzione e rispetto, dallo storico contemporaneista, meritevole invece di censura. Ignorando, va subito precisato, il fatto che gli studi di Volpe sull'Italia moderna hanno una logica premessa in quelli sull'età medievale.
Nato a Paganica, in provincia di L'Aquila nel 1876 Volpe studiò presso la Scuola Normale Superiore di Pisa e l'Istituto di Studi Superiori di Firenze. Fu allievo di Amedero Crivellucci, Pasquale Villari, Alberto Del Vecchio. La sua formazione filologica trovò, però, un'integrazione nelle suggestioni del materialismo storico e nei suoi interessi per gli aspetti economici e sociali delle vicende storiche, che lo spingevano a seguire con attenzione sia i moti di operai e contadini sia il nascere e diffondersi di leghe e associazioni sindacali. Volpe diventò, così, uno degli esponenti più significativi di quella nuova tendenza storiografica che Benedetto Croce avrebbe chiamato «scuola economico-giuridica», nata, quindi, dall'evoluzione della «scuola filologico-erudita».
Alla stagione medievistica di Volpe appartengono studi importanti, come quelli sulla Toscana medievale, sulle origini dei comuni, sui movimenti religiosi e le sette ereticali oltre, naturalmente, allo splendido e mirabile affresco Il Medioevo (1926), capolavoro assoluto e indiscusso della storiografia. In tutti i lavori medievistici Volpe si sforzava di ricercare elementi riferibili a un lento ma progressivo «formarsi» del «popolo» italiano o, meglio ancora, della «nazione» italiana. In essi, poi, era già rintracciabile una concezione «realistica» della storia come trama di forze impegnate in una lotta continua regolata dal criterio dell'efficienza.
Il mutamento di interessi storiografici di Volpe risale, per un verso, alla Grande Guerra e, per altro verso, all'affermarsi della teoria della classe politica di Gaetano Mosca e Vilfredo Pareto. Le nuove opere dello storico, con lo spostamento di attenzione dai ceti sociali alle classi politiche, segnarono il passaggio da una storiografia di taglio economico-giuridico a una storiografia più «politica». Era un passaggio, tuttavia, che non comportava soluzioni di continuità: il medievista Volpe aveva centrato la propria attenzione sul processo di formazione del popolo italiano, il Volpe modernista si occupava ora della «nazione Italia», del suo costituirsi in Stato proiettato verso una dimensione europea e internazionale.
In altre parole nel passaggio dagli studi medievistici a quelli contemporaneistici Volpe mostrava un quasi fisiologico spostarsi di interesse verso il momento della «politicità», grazie al concetto di «nazione» assunto come punto di confluenza della «classe sociale» e della «classe politica».
Uno dei suoi libri più celebri, L'Italia in cammino che apparve nel 1927 poco prima della pubblicazione della Storia d'Italia dal 1871 al 1915 di Benedetto Croce conferma l'integrazione del momento sociale nel momento politico. Del resto, ora, Volpe trattava non più delle vicende di un comune medievale, ma di quelle più complesse di uno Stato moderno. La storia del cinquantennio studiato nell'Italia in cammino poi ampliata nei tre splendidi volumi dell'Italia moderna (1943-1952) è la storia di un progressivo e consapevole precisarsi e definirsi della nazione italiana. Tale processo raggiunge l'acme nell'anno della neutralità, quando gli italiani, interventisti o neutralisti, riconobbero la «nazione» Italia come unico soggetto di politica sicché, nelle polemiche quotidiane, sparirono i riferimenti a interessi particolari di gruppo o partito. La guerra dette un «indelebile suggello» a questa conquistata consapevolezza.
L'accentuazione della «politicità» divenne sempre più forte negli scritti di Volpe dedicati alle vicende del dopoguerra e, naturalmente, anche nella Storia del movimento fascista. Il fascismo per lui era il risultato della nazione in ascesa, non già quindi negazione rivoluzionaria della storia pre-fascista ma piuttosto suo sviluppo. Era una concezione, questa di Volpe, che presupponeva l'idea di un continuum storico ed era una concezione che non poteva, comprensibilmente, risultare troppo gradita né a Mussolini né agli ambienti più estremi del regime che puntavano a enfatizzare l'idea della «rivoluzione» fascista.
Tutto ciò spiega perché Volpe non volle aderire alla Repubblica sociale e perché il primo volume della sua Italia moderna pubblicato dall'Ispi nell'estate del 1943 venisse sequestrato dalle autorità di Salò per l'invito contenuto nella prefazione a «stringersi attorno al Re». Va anche precisato che, dopo la Liberazione, venne bloccata, ad opera del commissario dell'Ispi nominato dal Clnai, l'immissione sul mercato delle poche copie sfuggite alla distruzione.
Per «malafede» o «ignoranza» lo sottolineò Giuseppe Are si è cercato di liquidare la figura dello storico presentandolo come «fascista» o «storico ufficiale del fascismo» o
espressione di una non meglio definita «storiografia nazionalista». In realtà, al di là delle idee politiche, resta il fatto che Volpe è stato non solo un grandissimo storico, ma anche un eccezionale organizzatore culturale.
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