La storia è semplice: un attore regista all'apice del successo, si ritira. Volta le spalle al pubblico. Abbandona le scene ma continua a sperimentare. Il teatro, ce lo ricorda Carmelo Bene, può fare a meno dello spettacolo. E qui si apre la riflessione profonda di Agalbato e Sargentini; il fare artistico, oggi in Italia, è morto? L'opera è il risultato di un lavoro artistico o è il prodotto-merce con un valore di mercato? Può resistere all'alienazione televisiva? Il teatro può fare a meno dello spettacolo e quindi del pubblico? L'io del teatrante è scisso fra la soddisfazione della propria fatica fisica e il desiderio di approvazione: l'applauso. Il teatro impone un gioco di ruoli; la società anche.
Si può liberare l'artista dal lavoro degradante su commissione, può non essere sovvenzionato dal mercato, dall'impresario; può perseguire in solitudine uno spirito di rivolta, può fare la rivoluzione, a patto che abbia uno spazio per esprimersi e un pubblico che lo venga a vedere. L'artista non necessariamente deve essere di corte, può anche essere rivoluzionario, esplosivo, liberatorio, ma senza pubblico corre il rischio di essere immaginario. Un elemento ricorrente che accomuna Spalle al pubblico alla sperimentazione d'avanguardia è l'abolizione dei ruoli teatrante-spettatore. L'attore si smaschera insieme a noi, attraverso un camerino-ponte fra platea e palcoscenico. L'immagine del protagonista riflessa nello specchio è la presa di coscienza collettiva sull'impossibilità di fare arte oggi. Lo specchio del camerino scruta, indaga, è il lettino dell'analista e i fasci di luce che vanno in platea, coinvolgono lo spettatore in questa riflessione. Il teatro si può fare solo se smette di rappresentare la vita; deve rappresentare solo se stesso. In questa utopia si muove lo spettacolo di Agalbato e Sargentini, con la presenza di un bravissimo primattore (Francesco Biscione) e la sua giovane e avvenente complice (Arianna Ninchi); reciteranno brani sulla follia tratti da Gogol, Erasmo da Rotterdam, Amleto e Tardieu.
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