L'epopea del Grande Fitz: cento false partenze e una vita da vero scrittore

Torna l'antologia di racconti esemplari (dagli esordi alla consacrazione) di Francis Scott Fitzgerald

L'epopea del Grande Fitz: cento false partenze e una vita da vero scrittore

Moltissimo è stato scritto, sull'autore di Tenera è la notte, e, a volte in modo incontinente, moltissimo su di lui e la moglie Zelda è stato raccontato, dalla critica e dal cinema prima di tutto. Ma nessuno meglio di Francis Scott Fitzgerald (1896-1940), nato poco più di centoventi anni fa, morto di infarto a 44 anni e vissuto nei luoghi che allora erano il vero centro del mondo, New York, Parigi e la Costa Azzurra, può raccontare se stesso. Cento false partenze. Autobiografia per racconti (Belleville, pagg. 271, euro 16; trad. di Giorgio Monicelli, collana a cura di Ambrogio Borsani e Roberta Cesana) - in libreria da oggi e appena presentato a Bookcity a Milano - è l'occasione per leggere diciassette pezzi facili con cui il grande scrittore americano compone un'insolita autobiografia. O per rileggerli, visto che la prima edizione americana di questo libro è del 1957, raccolta dal suo biografo Arthur Mizener, e la prima italiana, uscita per Mondadori con il titolo Crepuscolo di uno scrittore, del 1966, quando ormai Fernanda Pivano aveva importato per i lettori nostrani praticamente tutta la produzione del padre del Grande Gatsby.

«La storia della mia vita è la storia della lotta tra il prepotente impulso di scrivere e un insieme di circostanze volte a impedirlo»: così parte il racconto forse più folgorante della raccolta - sebbene tutti stiano a testimoniare principalmente come, quando uno scrittore parla di se stesso, sia ancora e sempre per capire perché scrive e non per altro dal titolo Chi è... e perché. Perché quel che intenerisce e conquista, in questi 17 brani esemplari usciti sui giornali americani tra il 1920 e il 1929 (con un racconto postumo del '47), e qui disposti in ordine cronologico dall'adolescenza ai primi successi e fallimenti fino alla consacrazione, è la potenza identitaria con cui, nel conflitto tra narrazione ed esistenza, lo scrittore si oppone alla barbarie sconfinata dell'ambiente umano, con la sua miseria che non perdona, la sua guerra che falcidia, la sua ottusità che livella.

Ci si chiede a volte che cosa muova un uomo che per la maggior parte del suo tempo terreno si accanisca nell'inventare fantasmi e in questo libro si trovano molte risposte e molti imperativi categorici. Il prima pare sia che il mito privato, che attizza il fuoco della potenza narrativa, non deve dormire mai, nemmeno nei gesti e nelle attitudini che tutti abbiamo attraversato nelle nostre personali biografie. È sveglio già nel tardo pomeriggio di settembre di due quindicenni, Basil e Riply, protagonisti del racconto Una serata alla Fiera, che «saturi di cibo e popcorn e stanchi dopo otto ore di continuo moto» escono da una delle più stupende fiere d'America e bastano un paio di ingredienti ignifughi, la prima volta coi calzoni lunghi, l'apparizione di un'auto rossa e una ragazza bionda, perché ballerini, giostre, fuochi artificiali e acrobazie d'aeroplani si trasformino in «un girone infernale, con demoni sogghignanti e livide fiammate di carta». Ed è ben desto in Princeton, dove Fitzgerald schernisce insieme ai suoi compagni i tentativi del professor Miles «di conciliare il vigore ritmato dei gesti militari col suo inglese pedantesco» o inquadra il rettore Hibben, «Un miscuglio di normalità e di acume, di ligia obbedienza allo status quo e di una nobile tolleranza che sfiora quasi la curiosità intellettuale», ma poi durante la notte scrive insieme a John Biggs interi numeri della rivista universitaria.

Poi arrivano gli anni in cui il mito privato è tutto quel che resta e la lotta divora il resto del tempo, quello che non si passa a scrivere: gli annunci pubblicitari per saponette e lavanderie, i traslochi, i lavori più infimi, come la riparazione di tetti delle vetture ripagati solo da cartoncini standard di rifiuto spediti dagli editori e fissati alle pareti della camera a superare i cento e poi i centoventi, come «una specie di fregio». Nei racconti di questa raccolta le frasi memorabili sulla scrittura si accumulano senza sosta, serbatoio prezioso per chi, nonostante il moltiplicarsi di scuole e maestri di creatività narrativa, oggi non avesse ancora le idee chiare su che cosa serva, a parte la tecnica, per mettersi a tavolino. Ma le più emozionanti sono sempre quelle legate a un fatto, a un momento di vita vera: «Avevo appena compiuto ventidue anni, la guerra era finita e io contavo di tampinare delinquenti di giorno e scrivere racconti di notte». Oppure: «Traslocare è la cosa più dispendiosa di questo mondo; e poi io non posso scrivere una sola riga in mezzo alla confusione». O ancora: «L'estate scorsa fui trasportato all'ospedale con una febbre da cavallo e una diagnosi approssimativa di febbre tifoidea... C'era un racconto che avrei dovuto scrivere per pagare i debiti più urgenti e mi ossessionava il fatto di non avere nemmeno fatto testamento».

Qual è allora la lezione di Fitzgerald, che cosa bisogna avere in tasca per essere un vero scrittore?

Forse una parola basta, una parola chiave anche per i molti maestri che sono venuti dopo di lui, per esempio Kingsley Amis padre e Martin figlio, che di quella parola ha fatto addirittura il titolo di un libro: Esperienza.

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