Poco più che ventenne, Ardengo Soffici si trasferì a Parigi nel 1900 dove rimase fino al 1907 e dove fece quello che, in seguito, nella sua autobiografia Autoritratto d'artista italiano nel quadro del suo tempo, avrebbe definito il «salto vitale». A quell'epoca per gli artisti la capitale francese era un luogo mitico. Lì il giovane Soffici, proveniente da Poggio a Caiano, si immerse in un ambiente imbevuto di fermenti e sollecitazioni avanguardistiche e sviluppò una sensibilità artistica di respiro europeo.
Proprio a Parigi, per puro caso, egli scoprì Giovanni Papini. Un amico italiano gli fece pervenire un giornale stampato su carta a mano con testata e fregi di Adolfo De Karolis incisi in legno. Si trattava del Leonardo le cui pubblicazioni avevano avuto inizio nel gennaio 1903. Il Leonardo impressionò Soffici. Lo colpirono la grafica, il tono, la spavalderia, ma soprattutto gli articoli di Gian Falco e Giuliano il Sofista, nomi dietro i quali si celavano Giovanni Papini e Giuseppe Prezzolini. Fu così che trovandosi di lì a qualche mese (si era sempre nel 1903) a passare per Firenze egli pensò di incontrare di persona Papini col quale aveva già intessuto uno scambio epistolare. I due s'intesero e nacque quell'amicizia profonda che nel 1913 avrebbe portato alla fondazione della rivista Lacerba in velata polemica con La Voce di Prezzolini. Peraltro, nell'ambito del vocianesimo Soffici aveva avuto un ruolo: proprio sulle colonne di La Voce egli, attento alle avanguardie artistiche e letterarie, aveva illustrato tematica, tecniche e motivi dell'impressionismo, aveva presentato Medardo Rosso e aveva discusso l'opera di Rimbaud. Con Lacerba Soffici e Prezzolini si proposero di contribuire allo svecchiamento spirituale della cultura italiana e cercarono di trasformare il loro gruppo in un punto di riferimento di idee, sollecitazioni, fermenti anche arditi e provocatori. Iniziò la breve stagione futurista di Soffici. Certo, Lacerba aprì al futurismo. Ma si trattò di una apertura che, malgrado tante opinioni in contrario, non consente di collocare a pieno la rivista fiorentina fra le testate futuriste. Infatti, l'intesa tra «lacerbiani» e futuristi si fondava, più che su solide basi intellettuali, per usare le parole stesse di Soffici, su «un prepotente bisogno di aria nuova, un'allegra volontà di spoltrire il mondo circostante, di spalancare le frontiere dell'intelligenza e dell'arte per un principio di nuova universalità».
La personalità di Soffici, in realtà, è molto più complessa di quanto si pensi e la sua attività pittorica non può essere correttamente separata dalla sua attività letteraria e, vorrei aggiungere, dal suo stesso impegno politico. Un bel saggio di Ruben Donno dal titolo Uomo di penna e di pennello. Il doppio talento di Ardengo Soffici (Le Lettere, pagg. 342, euro 35), mostra, con il supporto di un ampio apparato iconografico, come esista uno stretto collegamento fra il letterato e l'artista nel senso che Soffici è il prototipo dello «scrittore-pittore» sensibile al fascino delle correnti artistiche e delle discussioni letterarie che agitavano la cultura italiana e quella europea.
L'aspetto più significativo della personalità di Soffici a me sembra, in realtà, rintracciabile proprio in quella sua tendenza all'individualismo artistico che ne impedisce l'inserimento in correnti: una tendenza che va coniugata, tuttavia, con la sua disponibilità verso ogni discorso innovativo a patto che l'innovazione non degeneri in sperimentalismo fine a se stesso. La celebre definizione che Renato Serra coniò per l'artista e scrittore toscano «Soffici non è un'opera né un genere: è un dono» appare, alla luce di queste considerazioni, indovinata.
Non è un caso che sulle pagine di Lacerba i migliori esponenti del futurismo da Carrà a Boccioni, da Russolo a Sant'Elia abbiano potuto precisare e discutere i fondamenti teorici dei loro entusiasmi. Ma non è neppure un caso che nei «collages» e nei «complementarismi pittorici» del suo cosiddetto momento futurista, Soffici abbia fatto scivolare riferimenti e allusioni di sapore campagnolo e popolare, quasi un richiamo alla tradizione toscana e macchiaiola. Non è un caso, infine, che dopo l'interventismo e la guerra, dopo Kobilek (1918) e La ritirata del Friuli (1919), egli attraverso la partecipazione all'ambiente prefascista, prima, e a quello fascista, poi sia divenuto assertore, tanto in pittura quanto in letteratura, di un «ritorno all'ordine». Appartengono all'immediato dopoguerra, per esempio, le «nature morte», le «case coloniche» od anche ritratti in cui le suggestioni impressionistiche e cezanniane sono presenti ma dissimulate e sfumate.
La Grande Guerra fu per Soffici un fatto decisivo. Lo spinse ad ancorarsi alla tradizione paesana e popolare. Un esito, questo, del resto, che egli, pur di formazione francese e cosmopolita, aveva lasciato intravvedere già nel Lemmonio Boreo (1912). Durante gli anni del conflitto e quelli immediatamente successivi, egli mostrò di non apprezzare riviste e rivistine che manifestavano intemperanze libertarie spinte «fino alla cretineria», estetismi e complessità metafisico-ironiche. Vi ritrovava qualcosa che egli stesso aveva pur contribuito a divulgare nell'anteguerra e se ne preoccupava, ma non da una posizione reazionaria o di rigetto di quanto era stato fatto: «Non ho alcun gusto per i conservatorismi e i ritorni al passato che vedo oggi in giro e sono, ripeto, per tutte le novità. Macchina avanti, perciò; soltanto non per fossi e precipizi, con un guidatore idiota o briaco!».
Soffici scoprì nelle trincee la nazione come «condizione imprescindibile di forza animatrice, del profondo senso dell'individualità, e pertanto di stile originale nel pensiero e nell'espressione lirica». Ma questa scoperta, a ben vedere, si traduceva in vero e proprio culto, intriso di malinconia e ironia, per il mondo rurale e popolaresco della sua amata Toscana. L'incontro con Mino Maccari e con l'universo «strapaesano» raccolto attorno a Il Selvaggio deriva, probabilmente, da tale «culto». Come pure, da esso, discende la sua concezione del fascismo come «movimento rivoluzionario». Un fascismo frutto più di stato d'animo che di dottrina politica: un fascismo ideale, una sorta di distillato del valore etico della grande guerra e dei valori per i quali essa era stata combattuta.
Non è un caso che egli abbia finito per isolarsi dedicandosi alla pittura e alla letteratura, mantenendo però un atteggiamento di intransigenza politica che era anche intransigenza morale. Per quanto non si riconoscesse nel fascismo realizzato, Soffici non indulse a tentazioni frondiste, ma neppure utilizzò a proprio vantaggio il rapporto con Mussolini. Il quale, di lui, ebbe a dire che era l'unico letterato, insieme a Marinetti, degno della qualifica di «uomo d'azione» e uno dei pochissimi le cui parole gli restassero impresse nella memoria. Il distacco dalla politica non incrinò il rapporto umano con Mussolini per conto del quale aveva tentato a suo tempo di convincere Giovanni Amendola ad entrare nel governo e neppure mise in crisi la sua fede nella ideale immagine di un fascismo, il suo fascismo, visto e sentito come punto di decantazione di valori le cui radici affondavano nell'humus culturale rappresentato dall'attaccamento alla terra.
Soffici è stato un personaggio unico e irripetibile nella cultura italiana del Novecento, come letterato e come artista: se c'è una costante nella sua personalità, questa è rintracciabile in una eccezionale capacità di procedere, senza incertezze, lungo il ciglio che separa avanguardia e tradizione.
In questo senso il libro di Donno che non è una biografia ma un saggio di critica letteraria e artistica coglie nel segno sottolineando il fatto che Soffici è un punto di snodo e di approdo per capire l'impatto delle dinamiche artistiche e letterarie dell'inizio del secolo passato con la modernità e le sue sfide.
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