Nel 1928 un giovane ed eclettico pensatore, Lorenzo Giusso, in seguito divenuto molto noto per gli studi sullo storicismo tedesco e sulla letteratura spagnola, pubblicò il suo primo libro, l'unico di carattere storico-politico, dal titolo Le dittature democratiche dell'Italia. Si trattava di una lettura della storia italiana, dal momento dell'ascesa al potere della sinistra storica nel 1876 all'avvento del fascismo nel 1922, come un succedersi di «dittature». Le vicende di quella che sarebbe stata definita l'Italia liberale» sarebbero state, insomma passando per Agostino Depretis, Francesco Crispi, Giovanni Giolitti e via dicendo il risultato di altrettante manifestazioni di «democrazia autoritaria» o di «dittatura parlamentare».
La tesi è meno peregrina di quanto si possa pensare. Tutto un filone di storiografia di tradizione «radicale», per esempio, quella che si muove lungo la direttrice Gobetti-Mack Smith, in certo senso vi si ricollega. E ciò anche perché quello di «dittatura» è un concetto dai contorni molto sfumati. Ne offre una riprova l'ultimo volume di Bruno Vespa dal titolo Perché l'Italia amò Mussolini (e come è sopravvissuta alla dittatura del virus) pubblicato da Mondadori (pagg. 406, euro 20): un volume nel quale si parla due diverse «dittature» delle quali l'Italia ha avuto esperienza: quella del fascismo, durata un ventennio, e quella, tuttora in corso, dovuta all'epidemia del Covid. Quest'ultima, la dittatura del virus, è tale non solo perché la vita dei cittadini è sconvolta nella sua quotidianità da comprensibili timori e angosce ma anche perché è messa a dura prova dalle limitazioni delle libertà individuali (e non solo) e dalla alterazione della dialettica tra parlamento e governo imposta dalla proclamazione dello stato di emergenza. La dittatura del virus si risolve, dunque, in un'altra forma di dittatura politico-istituzionale, sia pure apparentemente morbida, frutto di una alterazione del normale gioco politico e portata avanti attraverso provvedimenti amministrativi che anno valore cogente.
A questa dittatura cui gli italiani cercano di sopravvivere e che, simbolicamente, può essere sintetizzata con l'immagine della romana Piazza Venezia malinconicamente deserta fa riscontro la dittatura vera e propria, quella per dir così «storica», che gli italiani conobbero durante il ventennio fascista e che, pur essa, può essere simbolicamente richiamata alla memoria con l'immagine della stessa piazza Venezia straripante di individui osannanti il Duce. Cosa fu veramente il fascismo e come gli italiani si posero di fronte ad esso, e soprattutto di fronte a Mussolini, Vespa prova a spiegarlo nella prima parte del suo volume con equilibrio, disincanto e, soprattutto, senza retropensieri, senza cioè cedere agli stereotipi dell'antifascismo militante.
L'Italia, egli ci dice, amò davvero Mussolini e, piaccia o non piaccia poco importa, giunse a separare, per così dire, la figura idealizzata del capo dalla realtà regime, nel senso che al Duce furono riconosciuti pregi e meriti mentre sul regime e sui gerarchi vennero scaricati colpe e difetti. Una frase dello scrittore Corrado Alvaro che, prima di professarsi antifascista e perseguitato dal regime e da Mussolini, era stato fascista convinto è assai eloquente e illustra bene il senso del «mussolinismo» strisciante che era un fenomeno bel diverso dal fascismo professato: «il popolo aveva incarnato nel duce un antico ideale di giustizia ed era convinto che. se ne fosse venuto a conoscenza avrebbe riparato ogni ingiustizia e sanato ogni torto». Il «mussolinismo», si potrebbe aggiungere, fu un fenomeno che attraversò l'intera storia del ventennio anche, e forse addirittura in misura maggiore, nel momento della crisi finale: quando, per esempio, in piena guerra, mentre il Paese era già piegato dalle sconfitte militari e tutto lasciava prevedere una imminente catastrofe, non mancarono quanti, prevalentemente legati al «movimentismo» delle origini, invocavano un colpo d'ala di Mussolini prigioniero della «cricca» che lo circondava e lo imbrigliava. L'incapacità di comprendere la situazione nella sua gravità e l'illusione che il risveglio del demiurgo potesse cambiare le cose erano il frutto di un abbaglio dovuto, probabilmente, proprio al «mussolinismo».
L'idea del Duce come figura carismatica e demiurgica, come uomo dotato di capacità eccezionali e vicino alle masse, trovava conferma e sublimazione un quel culto del «corpo» di Mussolini raffigurato in tante fogge e situazioni, in abiti borghesi o in divisa militare, a cavallo o alla guida di un'auto, in costume da bagno o a torso scoperto impegnato a mietere il grano. Mussolini, insomma, come una specie di «semidio», adorato dalla popolazione e giudicato positivamente anche da politici stranieri come Winston Churchill che ebbe a confessare: «sono affascinato dal Duce».
Mussolini aveva inventato il fascismo e, all'indomani del delitto Matteotti e della svolta autoritaria del 3 gennaio 1925, aveva costruito un regime dai connotati ben precisi. Era una dittatura autoritaria di tipo classico. Giustamente Vespa fa notare come non si trattasse di un sistema politico totalitario perché nei regimi totalitari propriamente detti si pensi, per esempio, all'Unione Sovietica ovvero alla Germania nazionalsocialista il partito si identifica con lo Stato. In Italia, nell'Italia fascista, dove peraltro già la Monarchia fungeva da argine naturale a tale deriva, si assistette al fenomeno contrario, al tentativo cioè di Mussolini di ingabbiare il partito subordinandolo allo Stato. Il che, per inciso, spiega perché nel corso del ventennio si alternassero alla guida della segreteria del Pnf tante diverse personalità. Vespa, in proposito, ricorda che in soli due anni, fra il 1930 e il 1932, si ebbero ben tre segretari di partito, assai diversi fra di loro non solo per le idee professate ma anche per gli obiettivi che si prefiggevano: Augusto Turati, Giovanni Giuriati e, infine, Achille Starace il quale, a costo di diventare una macchietta e bersaglio privilegiato degli umoristi e del sotterraneo jus murmurandi, si impegnò per realizzare una «fascistizzazione», forzata e spesso risibile, del Paese.
Durante la prima metà degli anni trenta si registrò indipendentemente, ma non del tutto, dal culto per il Duce, che dopo i Patti Lateranensi era stato salutato come «l'uomo della Provvidenza» il più elevato livello di consenso al regime. Lo storico Renzo De Felice parlò di quegli anni proprio come degli «anni del consenso» e fu accusato di «qualunquismo storiografico» dai sacerdoti della purezza dell'antifascismo. Eppure, come fa vedere Vespa nella sua analisi dell'impronta del regime su tutta la società italiana nella prima metà degli anni trenta fino alla guerra d'Etiopia, il consenso ci fu: e poco importa se esso fu attivo o passivo perché quel che conta è il fatto che riguardò tutti gli strati della popolazione non esclusi i ceti intellettuali. Sotto questo profilo Vespa ha ragione nel dire che «l'Italia amò Mussolini». E questo anche perché l'antifascismo era stato ridotto, in quel periodo, alla clandestinità o costretto all'emigrazione. Le cose sarebbero cambiate in seguito con le scelte sciagurate del regime l'alleanza con la Germania, l'emanazione delle leggi razziali, l'ingresso in una guerra destinata a trasformarsi in catastrofe nazionale ma questa è un'altra storia che riguarda gli anni successivi e che, per certi aspetti, non incise troppo sul mito di Mussolini, sul «mussolinismo». Una storia che, probabilmente, Vespa racconterà in un prossimo volume.
Scritto con la penna del cronista che aiuta a capire i fatti come si sono effettivamente svolti e arricchito da una aneddotica talora divertente ma funzionale alla caratterizzazione dei personaggi e alla corretta delineazione degli ambienti, il
libro di Bruno Vespa è bene sottolinearlo non è affatto una apologia, e neppure una giustificazione, di Mussolini e del fascismo. È, semmai, un invito pacato a riflettere sul passato e a fare un necessario esame di coscienza.
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